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8 E 90

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Solo. Solo come nel 1968. Solo come ogni sera. Seduto nella sua stanza si scopriva a guardare le pareti e ricordava quando aveva messo sette televisori in fila tutti accesi. Sette grandi televisori lungo la parete che illuminavano la stanza e portavano il mondo ai suoi piedi. Era il suo modo di non sentirsi solo. Li aveva comprati tutti diversi perché gli erano piaciuti tutti e non aveva voluto scegliere. Adesso, l’unica luce veniva dalle due grandi finestre alle sue spalle e l’unico suono era quello della radio che aveva sulla scrivania. Bob Beamon li aveva dovuti vendere tutti. Correva come pochi e saltava con una facilità difficile da spiegare. Ora ha smesso di correre e di saltare.

“Oyo como va. Mi ritmo.” Tac. La sua mano all’improvviso prese vita, si mosse e girò con decisione la manopola dell’interruttore della radio che teneva sul tavolo. Qualche volta l’accendeva per cercare di trovare un ritmo, per provare a cercare il suo senso e uscire una volta per tutte dal suo attimo dove era rimasto imprigionato per sempre. Un attimo lungo 8 metri e 90 centimetri. Bob, seduto su quella sedia, era da tanto che cercava di capire quel momento magico e allo stesso tempo definitivo dal quale non era più riuscito a tornare. Tac. Spense la radio e il silenzio era arrivato a circondarlo nella stanza. Questo pensiero lo angosciava perché il silenzio non era arrivato, semplicemente era apparso lì, insieme a lui. Prima era solo. Poi, tac: il silenzio era insieme a lui. Nessuno era arrivato. Prima non c’era, adesso c’era. “L’essere è, il non essere non è”. Improvvisamente quella frase gli era tornata in mente. L’aveva letta su un libro all’università. Non si ricordava il titolo del libro e neanche quando l’aveva letto. Ma la frase gli era rimasta impressa. Semplice, diretta. Ora aveva capito anche il perché: se una cosa c’è esiste per sempre, se non c’è allora non esiste. Non c’è movimento in questa alternanza: “Oyo como va. Mi ritmo” la musica c’è, il silenzio non c’è. Tac. Il silenzio c’è, la musica non c’è. Solo, insieme al silenzio e al peso che affossava la sua vita da troppo tempo, cercava come sempre di uscire dal suo mistero. Ogni sera, da troppi anni si trovava lì seduto davanti a quella scrivania cercando di capire il senso di quel lontano pomeriggio di ottobre del 1968. Finora, ogni sforzo fatto per dare un senso a quel salto era stato inutile. Quella sera aveva deciso che non lo avrebbe cercato ma sarebbe rimasto ad ascoltare – nel silenzio – perché se non c’era non c’era nulla da cercare, se c’era lo avrebbe sentito. Tornare indietro fino a quel pomeriggio di ottobre a New Mexico non era difficile per lui. Non era un ricordo, era un film stampato con una precisione netta dentro la sua anima che, senza sosta, si ripeteva davanti ai suoi occhi. Si trovava stanco e assonnato sulla panchina vicino alla pista del salto in lungo, dalle gradinate dello stadio arrivava un vociare indistinto che gli risuonava intorno mentre lui cercava un po’ di pace nella sua testa e un po’ di ordine nella sua vita. Era arrivato da circa un’ora e aveva fatto qualche giro di pista trotterellando per cercare di levarsi di dosso il torpore e gli ultimi rigurgiti di tequila della notte scorsa. Era arrivato in finale alle Olimpiadi, ma non riusciva a scovare alcun sorriso sul suo volto assente. Le gambe lo avevano salvato tante volte nelle strade di New York quando correre non gli faceva vincere nessuna medaglia ma lo salvava dai lividi. Aveva capito subito che non poteva vincere con i pugni perché la forza non era nelle sue mani ma nelle sue gambe e Bob, se vedeva che il coltello era troppo vicino alla sua faccia, non esitava a correre e se correva nessuno poteva stargli vicino. Quelle stesse gambe, che gli avevano aperto le porte del college, adesso gli sembravano un carico troppo pesante da portare. Era tutto troppo difficile per lui, troppo complicato: un anno di allenamenti e prima di partire si era ritrovato solo, cacciato dall’università. Lei lo aveva guardato in faccia solo per dirgli ciao e solo adesso aveva capito che dietro quel saluto c’era un addio. Perché era lì? Perché si trovava in quella città dove le narici si aprono fino all’inverosimile per catturare i pochi pulviscoli di ossigeno che volano nell’aria e il respiro procede affannato anche stando fermo al bancone del bar? Aveva passato la notte guardando l’infinito attraverso i bicchierini di tequila cercando di mettere a fuoco il mondo che gli girava intorno e che non riusciva più a raggiungere. Lui, così veloce, non riusciva più a tenere il passo della sua vita. Si era seduto davanti a tutti i banconi che aveva trovato per rifugiarsi dentro tutti i bicchieri di tequila che era riuscito a ordinare per stordire le sue angosce. Alla fine, i soldi erano svaniti con la rabbia che lo sosteneva e si era trascinato solo fino alla sua stanza. Non si era addormentato, aveva solo chiuso gli occhi stremato dai pensieri sopravvissuti alla tequila. La mattina tardi, quando si era alzato con la testa ancora pesante, era andato come un automa verso lo stadio. Era uscito dal tunnel e si era diretto verso la panchina vicino alla pista, stremato prima ancora di cominciare. Il pomeriggio era appena iniziato e la luce era cupa per le nuvole trascinate dal vento che sferzava lo stadio con raffiche improvvise. Una pacca sulla spalla del suo allenatore lo aveva sorpreso nei suoi pensieri, dopo il tedesco toccava a lui. Alzò la testa e lo vide prendere la rincorsa mentre il vento gli tirava addosso tutta la sabbia. Atterrò solo per vedersi sbattere in faccia la bandiera rossa del nullo. Tutti i salti erano stati nulli. Toccava a lui. In quel momento si ritrovò solo, non abbandonato, semplicemente solo, unico uomo al mondo, sentiva l’aria agitare i suoi polmoni mentre i denti si serravano e si rilasciavano simulando le falcate che lo separavano dal salto. Bob guardò intensamente la linea bianca di battuta e mentre il vento si placava e la lingua secca raccoglieva l’ultimo rigurgito di tequila avviò la sua rincorsa. Breve, veloce, come per liberarsi delle sue angosce e sciogliere tutti i suoi muscoli intorpiditi. La linea bianca gli comparì davanti e lui batté il suo piede destro con forza. Toc. Un colpo secco e si trovò in aria con le gambe che roteavano e i suoi occhi che vedevano il cielo lontano. Era in aria e sentiva che stava ancora salendo e spinse con forza inarcando la schiena con un colpo di reni che schioccò dentro di lui come una frusta. Era in aria, mentre il vento continuava ad accarezzare la sua pelle toccandogli ogni piccolo poro, guidandolo in avanti. Fu un attimo. Ma fu un attimo assoluto senza niente intorno. In quell’attimo capì che stava per scendere e allungò tutte le sue gambe riuscendo a sentire la vibrazione della tensione fino alle dita. Dopo un tempo che a lui parve infinito, sentì la sabbia sotto i suoi talloni e il peso del suo corpo che si poggiava sulle sue gambe, comprimendole quasi fino a terra. Scattò in avanti facendo un altro piccolo salto per trovare nuovamente l’equilibrio. Il buio, il nulla, lui non c’era più. Era rimasto all’inizio della pista. Il film adesso continuava con gli istanti dopo il salto: il silenzio dei giudici, il vento che aveva ricominciato a sferzare la pista. Il silenzio. Di nuovo il silenzio che l’avvolgeva insieme ad una ansia che cresceva momento dopo momento. Una voce grida. La sua. “Non ci provate nemmeno! Il salto è buono. Datemi la misura e facciamola finita.” Le parole gli erano uscite di getto e forse le ripeteva ogni sera ad alta voce come per dargli più forza, poi, mentre l’allenatore gli si avvicinava per calmarlo, era comparsa. Non riuscivano a misurare la distanza perché quella distanza era fuori dal mondo. Avevano dovuto tirare fuori la striscia colorata del metro, con tutti i centimetri segnalati dalle ordinate e anonime lineette verticali. La sua misura non c’era e l’avevano dovuta stabilire in quel momento. 8,90: 8 metri e 90 centimetri. Ancora adesso faceva fatica a capire che era lo spazio che aveva lasciato dietro di sé quando aveva preso il volo battendo il suo piede destro. 8 metri e 90 centimetri, oltre mezzo metro rispetto al record precedente. Perse il controllo. Ogni sera in pratica il ricordo finiva qui perché ogni sera aggiungeva un finale diverso al suo film: una volta correva verso i compagni, una volta saltava come un ragazzino impazzito, una volta si inginocchiava. Poi i tuoni, l’acquazzone e un freddo glaciale avevano riempito lo stadio. La gara era finita. Ma non era finita lì solo la gara. Lì era finito anche il suo mondo. Aveva saltato troppo in là e il mondo non era riuscito a seguirlo. Lui di qua loro di là. 8 metri e 90 centimetri lontani da lui. Bob Beamon da quel momento é rimasto da solo. Non ha saltato più con il piede destro, non si é mai avvicinato agli 8 metri e non ha più visto la pista di un Olimpiade. Ecco, forse finalmente aveva capito. Non c’é un perché, non c’é un senso: semplicemente lui il 18 ottobre del 1968 é arrivato in un posto dove nessuno lo aveva potuto seguire. Ed é rimasto solo. Mentre era in aria il mondo si era distratto ed era andato da un’altra parte. Un respiro, i polmoni che si riempiono e si svuotano con un soffio flebile come spegnere delicatamente una candela, una manopola, tac, “Where have you gone Joe Di Maggio our nations turns its lonely eyes to you. Wu wu wu” e il riff di chitarra rock della versione di Mrs. Robinson dei Lemonheads. Il silenzio non c’era più ed era apparsa la musica della radio mentre Bob aveva capito dove si trovava: insieme a Joe Di Maggio lontano dagli occhi di tutti. Lontano 8 metri e 90.

Pezzo scritto, diretto e (un giorno interpretato) da Massimo Della Camera




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