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UN SOGNO CHIAMATO BRERA

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Sta tramontando il sole tra i merletti del Castello quando vedo un chiosco davanti al teatro Piccolo che può soddisfare la mia voglia di caffè. Mi avvicino, a costo di bere una schifezza a un euro-e-venti servita da un cinese. Giochicchiando con le monete in tasca smetto di pentirmi non appena dietro al bancone si alza stancamente una signora che, con evidente cadenza napoletana, mi chiede solo 80 centesimi.

Ologrammi e metafisica mi accompagnano ogni volta che ho a che fare col Brera Football Club. L’altra volta, mentre aspettavo il Presidente Aleotti, sentii un ragazzo confidare all’amico che il vegan burger fosse la cosa migliore che avesse mai assaggiato.

Cos’è il Brera? Un punto di vista per guardare il calcio da una prospettiva innovativa, soprattutto in Italia. Quindi non sorprendetevi se non doveste riuscire a metterla a fuoco. Sbirciate nel loro armadio di idee se volete fare un giro nel futuro.
Chi è Alessandro Aleotti? Un pazzo, un visionario, un sognatore. Scegliete voi. Per me semplicemente la pecora che si stacca dal gruppo, stanca di seguire un pastore senza meta.

Ha fondato il Brera con l’intento di portarlo in Serie A e ha esordito con una retrocessione dalla serie D. Dopo un’altalena di categorie si ritrova in Eccellenza ma non ha abbandonato quello che per lui resta una convinzione più che un sogno: vederlo in serie A.
E’ stato l’unico Presidente a vincere un campionato di Seconda Categoria senza mai fare un allenamento, sfidando l’ossessionante professionismo che dilaga ai livelli più bassi, ha introdotto il terzo tempo nelle partite casalinghe e sta già tramando di consegnare un premio al peggior giocatore avversario per smorzare la tensione che segue il triplice fischio.

Il Brera sta antipatico a tutti quelli che confondono i loro progetti col manifesto del se la tirano, dimenticando, o facendo finta di non ricordarsi, che hanno convinto i paleolitici dirigenti federali a portare il calcio nelle carceri mentre la maggior parte dei Presidenti faceva carte false (e non è un modo di dire) per vincere un campionato di Prima Categoria.

Mentre i genitori si insultano a bordo campo qui hanno fondato una scuola calcio non competitiva, rimarcando il fatto che il calcio sotto una certa età dev’essere solo un gioco.
Gli addetti ai lavori del microcosmo dilettantistico locale ne prendono le distanze, pensando al Brera come alla squadra che gioca nel centro di Milano per darsi un tono. Gli appassionati che credono in un altro calcio ancora possibile, come me, ne sono attratti.

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Sono in perfetto orario. In realtà nessuno mi aspetta, ho solo raccolto l’invito a partecipare a Brera Supporters Trust, l’iniziativa (molto british) volta a inspessire il cordone ombelicale che lega la squadra ai tifosi.
“Il Brera è una piccola squadra con l’architettura complessiva di un grande club” – come dar torto ad Aleotti buttando un occhio ai decori della sala Appiani che si affaccia sul campo. Mi godo le gradinate di uno stadio che ha fatto la storia finché il sole me lo permette, passeggio tra le colonne della balconata e mi chiedo di cos’altro abbiano bisogno i milanesi per appassionarsi a questi colori.
Di senso di appartenenza. E’ difficile costruirlo in sedici anni di vita, le radici hanno bisogno di molto più tempo per affondare nel terreno, non basterà una tessera associativa o una felpa, lo sanno bene da queste parti, ma oggi tutto viaggia a un’altra velocità rispetto alla tradizione e il termometro social della loro pagina Facebook segna 4.000 like.
Un sondaggio dell’agenzia SWG ha evidenziato che due intervistati su tre a Milano non conoscono altre squadre al di fuori di Milan e Inter ma i restanti rispondono Brera. Insomma, il gallone di Terza squadra di Milano è più che meritato ed è arrivato il momento di fare il grande salto.

“Sono confortato dall’aver incontrato diverse realtà di uno standing più elevato rispetto al calcio dilettantistico a cui poter cedere la staffetta. Il progetto ha bisogno di esplodere in una dimensione maggiore. Non mi interessa trovare qualcuno che possa portare il Brera in Serie D, quello lo trovo domani mattina, a me interessa trovare qualcuno che porti davvero il Brera in Serie A”.
Aleotti è il Presidente che ha fatto fronte a tutte le necessità che si sono manifestate senza mai entrare nella black list delle società che falliscono ma oggi, usando parole sue, il Brera è in attesa del Messia che lo porti nella dimensione professionistica dove tutto cambia e tutto cambierà.

Il trasporto con cui parla è contagiante e capisco che la sua più grande aspirazione non è vincere un campionato di Eccellenza ma diventare il fondatore di una terza squadra a Milano capace di arrivare veramente tra i professionisti. Varcata quella soglia la cassa di risonanza sarebbe enorme, il Brera attirerebbe mille tifosi senza abbandonare lo spirito che lo ha reso un fenomeno unico, seppur di nicchia.
Oggi è impensabile, pur aprendo gratuitamente i cancelli, ma visto il fascino dell’Arena varrebbe la pena di passare un paio d’ore su queste gradinate a prescindere dalla categoria.

A un certo livello il denaro diventa indispensabile ma non dev’essere l’unica medicina. Non voglio investire soldi per drogare un campionato e vincerlo. Voglio che il club rimanga ancorato alla capacità di risolvere con l’intelligenza le problematiche, non col denaro. Voglio che si sedimenti quest’idea nel club, coltivando una comunità d’intenti nei confronti dell’amore per la squadra. Non voglio usare i soldi come scorciatoia alla soluzione dei problemi” – musica per le mie orecchie, composta da uno che ha usato le risorse per un range ben più ampio di un campionato di Eccellenza. E il fatto che oggi in campo ci siano due profughi (sì di quelli arrivati col barcone) è solo l’ultimo esempio del Brera Style.

Mi incammino verso la metro ripensando a questa bella chiacchierata. E’ buio, i sentieri del parco sono deserti. Li immagino attraversati da bambini eccitati per un derby, con la sciarpa neroverde al collo, mano nella mano col papà.

Vorrei dir loro che io c’ero quando tutto questo sembrava impossibile.




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