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COME STAVAMO IERI, SARA’ COSI’ DOMANI

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Esistono giorni in cui ci si ferma. Per sempre. E si smette una volta per tutte di svolgere qualcosa che si era soliti fare negli anni precedenti, a scadenza programmata. Non si tratta di un cambiamento brusco e non si soffre più di tanto nella maggior parte dei casi. Si prende coscientemente atto del cambiamento. In questo caso di una privazione, grazie ad un ragionamento disincantato ed affascinante nel suo stesso processo di sviluppo.
Sino a quando avevo dodici anni ho giocato, con altri miei coetanei, paesani o villeggianti che fossero, a “Guardie e Ladri”, nel paesino di montagna dove passavo praticamente tre mesi di fila in estate coi miei nonni, mentre i miei se ne stavano giù in pianura, in città, a lavorare al caldo e alle tapparelle abbassate durante il giorno. Uno di noi si tappava gli occhi, un altro picchiettava sulla sua schiena tre volte con il pugno scandendo “Bim, Bum, Bam!” e indicava subito dopo un altro partecipante: quello con gli occhi tappati doveva assegnare all’altro, senza vedere di chi si trattasse, il proprio ruolo. Guardia o ladro? Pari numeri tra ricercati e investigatori. Ad alcuni non andava proprio mai di essere “guardia”, altri invece non vedevano l’ora. Io ero tra i secondi, mi piaceva l’idea di prendere alla sprovvista, sull’inospitale terreno dei vicoli che ci attendevano umidi e silenziosi, chi si vantasse di essere nelle fila dei cosiddetti “fuggitivi”, pieni della loro tracotanza, mordaci. Tempo: ci bastava una mezz’ora a manche, che veniva scandita dai rintocchi dell’orologio della chiesa, udibili per tutto il caseggiato. Luogo: una porzione di paese limitata, di solito, ad Est dall’inizio delle campagne, dove cioè le stradine asfaltate del comune diventavano di colpo sterrate, sino a raggiungere pendii e faggi e trasformarsi in sentieri inerpicati di montagna; e ad Ovest dallo stradone, il cardine del paese, quello che lo attraversava nella sua intera lunghezza e che portava a località montane più alte, raccogliendo attorno a sé le principali attività sociali e commerciali del luogo. Dai sei a dieci anni, per me, il lato più lontano dello “stradone” è stato off limits: potevo rimanere a giocare solo dal lato nel quale si trovava l’isolato in cui c’era casa nostra. Non potevo attraversarlo, da solo, nemmeno per andare in edicola o per raggiungere il campo sportivo. Sul “mio” lato c’erano la Chiesa (non essendo mai andato a messa non mi era di molta utilità), un alimentari nel quale non avevamo mai comprato nulla perché mia nonna era rimasta impressionata, una volta, dalla quantità di mosche che girovagavano al suo interno, il panettiere e il bar della cooperativa che aveva il videogioco arcade del Wrestling. Dopo i dieci, finalmente, ho iniziato a spingermi oltre quel limite urbano, oltre i Cavalli di Frisia schierati dalla mia famiglia a difesa della mia incolumità. Il trattato sulla mia libertà estiva sancito tra mia nonna e i miei genitori era scaduto.

Ci rincorrevamo per infinite mezzore a perdifiato, dividendoci in gruppi sempre più minuti ed agguerriti man mano che ci si addentrava nel labirinto della ricerca. Schivando le betoniere agli angoli dei vicoli, contornate da sacchi di calce e recinti di assi. Aggrappandoci ai muri in serpentina sempre all’ombra che si ricoprivano di muschio per non cadere, frugavamo nei fienili e negli anfratti delle case appena costruite, circumnavigavamo i pollai abbeverandoci alle incessanti fontane che puntellavano la geografia collinare, adagiata e verticale, del paese. Sfrecciavamo silenziosi e sorridenti sotto gli occhi dei lavoratori dei campi che portavano in spalla pesantissimi forconi, falci ed enormi rastrelli: loro ricambiavano con sguardi guardinghi, mai divertiti, come se avessero il timore che le nostre scorrerie potessero avere un’influenza moderna e negativa sull’ancestrale armonia del loro paese. Conservatori locali contro le guardie e contro i ladri. Bastava toccare un avversario per guadagnare un punto, che veniva annullato qualora uno o più ladri avessero raggiunto la fine del tempo di gioco senza essere stati presi. Durante il pomeriggio le squadre non cambiavano mai, e mezz’ora dopo mezz’ora i ruoli si invertivano.

Dybala è argentino ed è nato nella provincia di Cordoba, in un paesino che anche se non è situato propriamente in una zona di montagna potrebbe assomigiare a quello in cui giocavo a “Guardie e Ladri”. Inseguitori e fuggiaschi, buoni e cattivi, chi corre e chi no: ogni ragazzo si accorge di averci giocato e non ne fa un segreto. Ma poi si cresce e le proprie azioni diventano spartiacque, come il segnare o meno dei gol. Dybala li segna come il gelo si accanisce sugli alberi già in fiore agli inizi di marzo, quando gli uccelli si svegliano presto per cantare, seguendo un’immutabile legge di natura. L’elemento imprevedibile di tutto ciò è il gelo, che magari non ci dovrebbe essere ma c’è. Lo vedi sulle macchine parcheggiate sotto casa prima di andare al lavoro. Mio nonno che cucina davanti allo slalom speciale in televisione con la pioggia fuori, aspettando che tornassi da scuola in un primo pomeriggio piovoso e freddo di marzo  conferma che il gelo esista, e che lo si possa sentire anche quando non te lo aspetti e nonostante il calendario sia ormai andato inesorabilmente avanti. Lo avvertivo attraversando il vialone periferico prima di addentrarmi nell’androne del palazzo dove abitavano i miei nonni, già pregno di profumi di cucina che provenivano da tutti gli appartamenti della fortezza. Ma il gelo, anche per Dybala, è sempre esistito. Sin dai tempi in cui faceva coppia con Vazquez, “El Mudo” nel senso mancino del termine, col quale condivise la serie B, oltre che le origini, localizzate nella provincia di Cordoba: Franco nacque sulle montagne e Paulo in una zona termale, entrambi figli di una provincia grossa più dell’intera Grecia ma con gli stessi abitanti di Roma. La serie B, un campionato lunghissimo nel quale non si hanno ammiccate certezze se non dopo il ritorno dell’ora legale, fine oggettiva del periodo del gelo.

Un anno dopo, più niente. Un anno dopo iniziavo con le magliette degli Oasis e dei Red Hot Chili Peppers, iniziavo a sentirmi al telefono con i miei compagni di scuola, chiamandoli dall’unica cabina telefonica pubblica di quel luogo isolato. Parlavamo di musica, dei compiti delle vacanze di matematica, della noia di quella vacanza quando in città impazzava la vita. Avevo altri interessi, che durante l’inverno mi avevano trafitto come delle folgori e che non volevo smettere di coltivare durante l’estate, non dovevo farmi distrarre. Calcio, poco. Quell’estate, l’estate “dell’anno dopo”, avevo salutato alla cena di fine anno i miei compagni di squadra sapendo che non ci avrei mai più giocato assieme, avevo deciso di smettere. Un po’ perchè mi pesava allenarmi e svegliarmi presto alla domenica, sacrificando anche qualche sabato pomeriggio, e un po’ perchè il calcio iniziava a starmi antipatico: avevo smesso di seguirlo durante l’anno e poi c’erano altre cose, che avrei scoperto poco per volta. Pochi degli amici che frequentavo in città giocavano a calcio in una squadra, e devo ammettere che il mio attaccamento al dovere e alla partecipazione stava rendendomi sempre più timido nei loro confronti, come se le ore che dedicassi al campo da calcio fossero sottratte ad attività più di moda, più accattivanti e giovevoli. Dybala penso avrebbe potuto pensarla come me, ma sarebbe stato capace di coniugare le due situazioni in maniera eccellente: a lui non è mai bastato segnare o fare qualcosa di giusto per poter essere pienamente soddisfatto delle sue azioni. Per me, invece, fu un passaggio automatico e indolore, che vissi come un’eredità tutto sommato comoda da tralasciare a sconosciuti.

I gol di Paulo Dybala arrivano come una stranezza di stagione, ma appaiono anche come un avvenimento drammaticamente inevitabile, come una presa di coscienza che, nella sua brevità longilinea nello scorrere del tempo, ci fa acquisire esperienza, rendendoci più saggi. Da sdraiato, con la rincorsa, senza camminare, dopo un tocco di ginocchio oppure di destro, ancora più sgattaiolanti e pungenti. Arrivano senza aver dribblato nessun avversario ma solo dopo avergli fatto assaporare per un attimo l’umidità reproba del pallone. Non sopraggiungono inaspettati ma non entrano in conflitto con la nostra educazione, intesa nel senso scolastico del termine: arrivano come terzi dopo averne realizzati due nello stesso modo in cui arrivano nella sfida totale contro Leo Messi in un quarto di finale di Champions League allo Stadium, segnando il cammino di uno a discapito dell’altro, senza più (momentanei) appelli. Più che sentenze, i gol di Dybala sono avvertimenti: alle volte piombano inaspettati, altre invece rimangono imponenti come le rampogne di un temuto superiore, che ti ruzzolano addosso come gli sguardi delle anziane signore dedite al lavoro nei campi, che mi scrutavano dalle loro rughe come se fossi un’entità aliena mentre correvo con le mie scarpe da ginnastica nuove già annerite dalla terra e pronte ad accogliere chilometri di inseguimenti. I suoi gol prima o poi arriveranno, come quando ti accorgi di aver la necessità innata di evitare le abitudini di una vita. Le persone si accorgono a distanza di anni dei cambiamenti più asprigni perché loro evolversi, attorcigliandosi con il procedere del tempo, ha sopraffatto pesantemente ogni singola mutazione. L’inizio e la fine di un’azione di Paulo Dybala, invece, acquisiscono un significato perdurante, come la chiusura di un cerchio o l’epilogo di un racconto di formazione. Che si abbia o meno giocato a “Guardie e Ladri” da bambini, si intende.

di Andrea Vecchi di Ufficio Sinistri

 




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