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AI PIEDI DEL MITO

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Non dimenticherò mai la chiesa di San Juan Chamula, l’aria resa irrespirabile dalle centinaia di candele accese, il pavimento ricoperto da aghi di pino, le famiglie raccolte in preghiera per ore, gli uomini vestiti con una mantella di pecora suonare una sorta di cornamusa. Non dimenticherò le litanie ripetute ossessivamente mentre mangiavano, bevevano, fumavano.
Non dimenticherò la festa in piazza e i botti preparati artigianalmente con quello che c’era, come non dimenticherò il sapore dell’estratto di canna da zucchero offerto da un Mariachi. Non dimenticherò che Mariachi deriva dal francese ‘mariage’. Il cimitero, un ossimoro di mucchi di terra in fila tra una chiesa mai ristrutturata e un povero luna park. E la bambina che a Palenque ha impiegato un secondo per convincermi a comprare delle cicche. Lo sguardo rassegnato di gente povera ma degna, laboriosa e umile, i colori del Chiapas, le centinaia di chilometri nel verde, quante sfumature. Le scimmie sui rami delle piante ai bordi della strada, la frutta impilata al mercato sfidando la gravità, i tessuti filati a mano da donne piccole ma forti. I campi di Aster, una specie di margherita dai petali viola, l’aria pulita dei 2.000 metri, le mucche nere spaparanzate nelle pozzanghere. Greggi di pecore dalle quali estraggono solo lana, niente latte né carne. Ah la carne, sempre così tenera.

Non dimenticherò la confusione della piazza di Merida e l’enorme crocifisso della chiesa, il secondo più grande al mondo, il Margarita, il traffico caotico di Città del Messico, il senso di piccolezza di fronte ai basamenti di Uxmal, il temporale al Canyon Sumidero, la camminata verso l’altare di una ricca quindicenne per il suo ingresso in società. Non dimenticherò il mercato dell’artigianato e la Negra Modelo, il cielo terso e dopo un attimo plumbeo, lo Zocalo della capitale. Non mi scorderò i murales di Diego Rivera e il “Viva la vida” di Frida Kahlo, né i camerieri distratti dal derby América-Chivas, 1-2 per la cronaca. Le danze folcloristiche di coppie attempate nello Yucatán, le statue olmeche e le iguana a cui ormai avevo fatto l’abitudine. Non dimenticherò la devozione smisurata nei confronti della Vergine di Guadalupe, il tapis roulant che impedisce ai pellegrini di affollare la basilica per vedere il mantello che la ritrae. La ‘cerveza sal y limon’, il quartiere di Coyoacán, le barzellette sulla corruzione dei politici, i cormorani e i coccodrilli del fiume Grijalva, l’improbabile accostamento gamberetti e cocco, la spiaggia bianchissima e mai bollente. Incredibile. Non dimenticherò la scalinata della piramide del Sole di Teotihuacan, l’aria rarefatta e la vista sulla vallata, la periferia desolante di Città del Messico, decine di chilometri di cubetti di cemento aggrappati sui promontori.

Ricorderò i grattaceli altissimi del Paseo de la Reforma, le birre con la Bettuccia e Oliver, il quartiere Condesa, il Mole, brutto da vedere ma ottimo come salsa, Polanco, l’altare in una casa a Zinacantán, le chiese storte come un quadro di Dalì ma che i terremoti non sono riusciti ad abbattere. Non dimenticherò il corteo dei fedeli che ci hanno sorpreso con una chiassosa processione e la chiesa di San Francisco de Asis che ci ha dato rifugio durante il diluvio. Le cene gustosissime, il lusso delle ville al Paseo de Montejo sbattute in faccia alla povertà di Merida. Il caldo umido della foresta e le cascate di Misol-Ha, l’acqua scendere così violenta da impedire il cammino, la Michelada ordinata per sbaglio e il Guacamole a tutte le ore, le palme da cui estraggono olio combustibile finché le aziende petrolifere non si incazzeranno. Il labbro leporino che agli indios ricordava la pantera, animale sacro. Non scorderò il sapore del Chiles en nogada e l’immenso parco della capitale, i taxi sfiorarsi ripetutamente nei sorpassi e il ponte che univa le case di Frida e Diego, il loro rapporto odi et amo e le facce ritratte sui 500 pesos. Le piccolissime api senza pungiglione nei siti archeologici, la voglia di tornarci e quella di visitarne altri, le bandiere disseminate ovunque per la festa della liberazione. Ma liberazione da cosa se in fondo i gringos truccano le elezioni?!

La contraddizione di un paese affascinante, machista, immenso, corrotto fino al midollo, tradizionalista, svenduto, ricchissimo e mal gestito da altri. L’intelligenza extraterrestre dei Maya che suddivisero l’anno in 365 giorni ma che non svilupparono la navigazione per colpa di Huracan, il temutissimo dio della tempesta, da cui uragano. Non dimenticherò il pranzo alla Sotuta de Peon né la sosta al Puente Chiapas, le deformazioni del cranio a cui sottoponevano i bambini per somigliare all’immagine che i nativi avevano degli dei. I manifesti di Joaquin Guzman, detto El Chapo, numero uno del narcotraffico di cocaina evaso come in un film grazie a un tunnel scavato sotto la cella. Non dimenticherò che la Tequila si ottiene dall’agave azzurro e il Mescal dall’agave rosso, la Don Julio che il cameriere voleva vendermi a tutti i costi, le foglie di Chia, il 13 come numero del sopramondo, i gradini alti e stretti da affrontare con cautela come una ossequiosa salita agli dei, i teschi messicani. Non dimenticherò quanto siano legati al primo novembre e al carnevale e che gli indios mettevano una pietra di giada in cima al naso per portare allo strabismo, sinonimo di bellezza. Il sombrero tipico di Guadalajara.

Infine non dimenticherò l’Atzeca, per me luogo di culto, teatro di Italia-Germania 4-3, della ‘mano de Dios’ e del ‘gol del siglo’, profanato da una commercializzazione a livello yankees. Il tunnel che porta i giocatori negli spogliatoi ha il pavimento di pietre laviche ma l’Adidas ha pagato milioni per dipingere il soffitto di nero con tre strisce bianche. Su una parete ci sono le targhe di tutte le squadre che ci hanno giocato fino al 2006 mentre sull’altra giganteggiano immagini celebri scattate sul campo. La nazionale messicana si cambia nello spogliatoio degli ospiti perché il Club América, squadra di casa, è griffato Nike e le pareti sono tappezzate dal baffo ‘Just do it’. E’ la ‘miseria e nobiltà’ sudamericana che attraverso trovate pubblicitarie altisonanti finge di dimenticare che metà della popolazione vive sulla soglia della povertà.

Eppure, nonostante i loghi di Corona e Coca Cola campeggino sui seggiolini, sopravvive un senso di appartenenza antico. Mentre passeggio a bordo campo immagino le scene riviste mille volte. Traccio con gli occhi lo slalom di Diego e mi gusto ogni metro della porta più famosa della storia. Mi siedo e scatto una foto dietro la rete del gol più irregolare e beffardo di sempre. Shilton non invitò Maradona alla sua partita d’addio, pare non l’abbia mai perdonato per quel gol di mano, ma la leggenda narra che il Pibe rispose: “Ma il secondo gol l’ha visto?”.

E’ il mio pellegrinaggio. Cammino lungo la linea laterale, sono a pochi metri da dove Bonimba servì l’assist a Rivera view it. Torno bambino. Il campo è immenso, il cielo pulito e il sole caldissimo. Immagino la fatica di quei giocatori che hanno fatto la storia avvolti da 100.000 persone e un’umidità insopportabile. Gli spalti sembrano mangiarti. Sono nell’unico stadio che abbia ospitato due finali mondiali, guardo il prato che ha visto Pelé e Maradona alzare la Coppa del Mondo.

Scoprire che l’Atzeca non è patrimonio dell’umanità calcistica ma appartiene a un impresario mi urta ma prima di uscire tutto torna al suo posto. Anni fa il Club América ha indetto un concorso per eleggere il tifoso più affezionato di sempre. Si sono presentati a migliaia con gadget impensabili e tatuaggi assurdi. Poi è arrivato un signore, per tutti ‘Nachito’, con una piccola scatola di scarpe; dentro c’erano i biglietti di tutte le ultime partite a cui aveva assistito. Erano più di 200. Ha vinto a mani basse e oltre all’abbonamento a vita gli è stata dedicata una statua che lo ritrae nelle prime file.

Questo è il Messico. Questo è l’Atzeca. Un posto dove Emilio Fernando Azcárraga Jean ha venduto i salottini a 4 milioni di euro ciascuno per cento anni ma in cui per passare alla storia è bastato dimostrare la propria fede. Semplicemente. Senza esagerare.

Viva Mexico. O forse no.

Atzeca




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