Il ritorno di Spalletti sulla panchina della Roma scoperchia il pentolone delle minestre riscaldate a qualcuno indigeste ma per altri terapeutiche. Tornare in una piazza dove si è già allenato è delicato per un tecnico che rischia di sporcare il bel ricordo lasciato ma è anche l’occasione per dimostrare che conosce così bene l’ambiente da riuscire a sbrogliare la matassa.
A Trigoria hanno richiato Spalletti dopo la parentesi russa, l’uomo che duellò per anni con l’Inter di Mancini e che ha alzato l’ultimo trofeo giallorosso. Il contratto di 6 mesi con opzione di rinnovo per la prossima stagione mostra però una certa cautela da parte della società.
Ecco un poker dei ritorni più celebri sulle panchine italiane.
Capello M&M
Estate ’96. Lorenzo Sanz ingaggia Fabio Capello dopo cinque stagioni nel Milan condite da cinque scudetti, una Champions League, tre Sucpercoppe Italiane e una Supercoppa Europea. E’ una scelta che si rivela azzeccata perché a Madrid dopo il quinto posto della stagione precedente vincono la Liga. Berlusconi lo rivuole a tutti i costi sulla panchina del Milan dopo un indecoroso undicesimo posto, frutto di un azzardo chiamato Tabarez a cui nemmeno il guru Sacchi riesce a rimediare.
Capello nell’estate ’97 adotta una mezza rivoluzione ma il risultato sarà un altro scadente decimo posto; di quel biennio rossonero nella mente dei tifosi resterà vivo il ricordo di un trio olandese molto meno nobile: Kluivert, Bogarde e Reiziger.
Tornerà sulla panchina del Real dieci anni più tardi vincendo ancora la Liga quindi si può dire che per Don Fabio le minestre abbiano il sapere agrodolce.
Lippi e la zona di comfort
Porta la Juve sul tetto più alto del mondo il 26 novembre 1996 quando a Tokyo batte il River Plate e conquista la Coppa Intercontinentale. In saccoccia ha già uno scudetto e una Coppa Italia (double nel ’95), una Supercoppa italiana, una Supercoppa europea ma soprattutto una Champions League. Prima di andarsene fa in tempo a regalare alla vecchia signora un altro scudetto e una Supercoppa italiana. Perde due finali di Champions consecutive (’97 Borussia Dortmund e ’98 Real) che si sommano a quella persa in Coppa Uefa nel ’95 contro il Parma. Insieme a Capello è l’unico allenatore capace di raggiungere tre finali consecutive in Champions. E’ la Juve di Vialli e Ravanelli, la squadra che vede un giovane Del Piero e passa successivamente dai piedi di Davids, Zidane, Inzaghi e Vieri.
Rassegna le dimissioni nel Febbraio ’99 in un momento delicato del campionato, avendo già annunciato la conclusione del rapporto a fine stagione. In estate passa ai nemici giurati dell’Inter dove strappa la qualificazione ai preliminari di Champions grazie a Baggio, mai considerato nelle gerarchie della rosa. L’avventura dura poco e il capolinea si chiama Helsingborg.
Non resiste al richiamo dell’Avvocato, lancia Zambrotta, contribuisce alla maturazione di Nedved, Thuram, Buffon e Camoranesi; il Lippi volume II porta a casa altri due scudetti (tra cui quello del 5 maggio 2002) e due Supercoppe italiane ma si macchia di un’altra sconfitta in finale di Champions: a Manchester nel 2003 perde ai rigori col Milan. Lascia un anno dopo segnando uno dei cicli più vincenti della storia bianconera.
C’è poco da rammentare della storia con la nazionale. A Berlino il 9 luglio 2006 cuce la quarta stella sulla maglia azzurra e quattro estati più tardi si assume tutte le responsabilità del fallimento del mondiale sudafricano.
E’ stato richiamato a furor di popolo e visto ciò che aveva vinto rifiutare sarebbe stato davvero difficile.
Cinquanta sfumature di Mancio
Sarà stato il malumore tattico post-Mazzarri o il continuo via vai della Pinetina ma la chioma di Bobby-gol ha già conosciuto diverse tonalità in questo remake interista. Sul primo capitolo nerazzurro, battute mouriniane a parte, c’è poco da contestare: due scudetti (tralasciando quello a tavolino), due Coppe Italia e due Supercoppe. Gli è mancata la consacrazione in campo internazionale, alimentando le critiche di chi lo giudicava alla guida di una squadra priva di avversari. La Juve era impegnata nel post-calciopoli, vero, ma intanto il Milan nel 2007 ha vinto la Champions e la Roma di Spaletti era tutt’altro che uno sparring partner.
Ha beneficiato di Vieira e Ibrahimovic ma ha gettato le basi di un gruppo che poco dopo vincerà tutto. Ha infarcito la colonia di argentini con Stankovic e Maicon per esempio, ha promosso Julio Cesar tra i pali lanciando un giovanissimo Balotelli, sua croce e delizia. L’ultima partita è stata il tricolore vinto sotto il diluvio di Parma ma se ne era andato virtualmente già l’11 marzo 2008 quando dopo la sconfitta in Champions contro il Liverpool disse che i restanti due mesi e mezzo sarebbero stati gli ultimi alla guida dei nerazzurri.
Per qualcuno fu un comportamento poco professionale, mostrato non a caso da un tecnico con le spalle troppo strette per reggere certe responsabilità.
L’esperienza l’ha fatta al City dove con una super squadra ha vinto una Premier all’ultimo respiro, una FA Cup e una Community Shield. Prima di tornare in Italia è volato in Turchia; col Galatasaray non gli è riuscita l’impresa di rimonatare in campionato il Fenerbahche ma ha vinto una coppa nazionale e ha raggiunto gli ottavi di Champions scavalcando nel girone la Juve all’ultima giornata. Poi si è schiantato contro i Blues di Mourinho ma questa è la storia tra due che non si sono mai amati.
A Milano lo rivolevano in tanti ed è stato accolto come un salvatore. In realtà non è riuscito a raddrizzare la stagione iniziata da Mazzarri facendo addirittura peggio del suo predecessore.
C’è chi dice che da allenatore sia sopravvalutato, che abbia ricevuto molto di più quello che avrebbe meritato, mentre viceversa da giocatore ha vinto poco rispetto al suo talento. C’è chi sostiene che all’Inter goda di pieni poteri e fiducia illimitata, solo così si spiegherebbero gli acquisti chiesti alla società e poco dopo messi all’uscio.
Sarà, sta di fatto che al momento sta facendo più di quello che i tifosi si aspettassero, tra stravolgimenti di formazione e un cantiere aperto l’Inter sembra ancora in divenire ma è davvero presto per giudicare il suo ritorno.
La Zemanlandia giallorossa
Apertura e chiusura capitolina con l’unico allenatore straniero scelto per questo poker.
Dopo tre stagioni alla Lazio nell’estate del 1997 Franco Sensi decide di portare Zeman sulla sponda giallorossa del Tevere. Il boemo è reduce da un secondo posto (’94-’95) e un terzo posto (’95-’96) ma soprattutto coi biancocelesti ha mostrato un calcio votato all’attacco oltre ogni limite. Alla Lazio porta Signori e Rambaudi, protagonisti del Foggia dei miracoli, ma lancia anche i vari Boksic, Di Matteo, Nesta, Di Vaio e Nedved.
Alla Roma raccoglie la sfida di rilanciare una squadra che si era a malapena salvata. Opta per una rivoluzione sul mercato e conclude al quarto posto mostrando il solito bel gioco. L’anno seguente nonostante un calcio spettacolare e la definitiva consacrazione di Totti e Delvecchio non raggiunge il piazzamento in zona Champions, fallimento che gli costa la panchina.
Tredici anni dopo, nell’estate 2012, a Roma è cambiato tutto tranne il capitano eppure la piazza accoglie il boemo con un calore mai riservato a nessuno. Lo spirito anti-Juve, il coraggio di denunciare doping e strani poteri, ma soprattutto l’aver riportato il Pescara alla ribalta attraverso una nuova Zemanlandia convincono la società a puntare su di lui.
Firma un contratto biennale, prima volta per uno che aveva sposato solo progetti annuali, lancia Florenzi e Marquinhos. Il primo diventa punto fermo della Nazionale, il seconda farà registrare una plusvalenza che da quelle parti non si era mai vista. Intanto i baby pescaresi Insigne, Immobile e Verratti esplodono definitivamente.
E’ un uomo di calcio ma questo calcio non gli appartiene più o forse semplicemente è l’uomo giusto nel posto sbagliato. I risultati arrivano solo a sprazzi e dopo sette mesi viene esonerato da ottavo in classifica.
Se il suo ritorno sia stato positivo o meno solo i tifosi romanisti lo possono giudicare perché Zeman trascende nel metafisico.