Quindici anni di progetti folli, una cornice suggestiva e tante sfide fuori dal campo. Fenomenologia della ‘Terza squadra di Milano’.
Di questo passo a Milano si giocherà il derby col fuso orario di Shanghai eppure c’è qualcuno che, a suo modo, vuol sfidare il Sol Levante.
Si può vincere in modo naïf, divertendo e divertendosi, solo grazie al talento e una stagione vissuta fra zero allenamenti, o quasi, e un terzo tempo tipicamente rugbistico? Al Brera pensano di sì e per la serie ‘provare per credere’ fatevi un giro sul canale Brera Channel di Youtube o sulla pagina facebook Brera Calcio!
Il Brera 2014/2015 promosso in Prima Categoria
Per capire le ragioni di un progetto così alternativo occorre riavvolgere il nastro al 2000 quando il giornalista-editore Alessandro Aleotti fonda la società col sottotitolo accattivante di “Terza squadra di Milano” e gli ingredienti per inserirsi nella secolare tradizione del calcio meneghino ci sono tutti: il più antico stadio d’Italia, un posto in serie D, un main sponsor come Radio 105 e Walter Zenga in panchina.
“Ci sono storie che prendono forma goccia dopo goccia e altre che irrompono come un lampo. Noi abbiamo scelto la seconda strada incarnando l’istantaneità che il mondo della comunicazione oggi impone e l’impatto è stato molto forte fin da subito” – parole di Alessandro Aleotti.
Il club, nato come un brand intenzionato a diventare la terza squadra professionistica milanese, al primo anno conosce la retrocessione in Eccellenza che il Presidente spiega così: “Il mio errore è stato quello di pensare di fondare un progetto e lasciarlo in mano a degli addetti ai lavori ma nel mondo dilettantistico, purtroppo, anche le persone migliori sono inadeguate per una progetto così grande. Dopo quindici anni di esperienza se oggi potessi contare sullo stesso budget probabilmente salirei in Lega Pro”.
Paradossalmente l’insuccesso trasmette nuova linfa e dopo un solo anno nasce la versione 2.0, un progetto di innovazione calcistica, un laboratorio nel quale lanciare delle idee come racconta il ‘Pres’: “Una volta fallito questo obiettivo ho riorientato il progetto del Brera non più a una dimensione calcistica ma a una dimensione sperimentale, quasi più filosofica che sportiva. Mi è sempre interessato usare il calcio come strumento che avesse altre finalità”.
Stavolta i risultati arrivano subito e insieme al terzo posto in Eccellenza guadagna la vittoria contro le discriminazioni sociali sostenendo il lavoro dell’associazione Intersos per gli aiuti ai profughi afghani in Pakistan.
Parallelamente lancia la prima provocatoria sfida della sua storia allestendo una formazione Juniores interamente formata da ragazzi extracomunitari, una scelta che Aleotti motiva così: “Se una città come Milano ha il 15% di stranieri è ovvio che questa presenza ci sia anche nelle squadre di calcio, escludere questa fetta di popolazione dalla realtà dilettantistica mi sembrava una cosa del tutto discriminatoria” – e sposando questa causa viene organizzato MilanoMondo, un torneo giocato al Vigorelli da 24 paesi con tanto di consoli e inni nazionali.
Nel frattempo arrivano ricorsi e sconfitte a tavolino per la compagine Juniores ma poco importa perché per dirla con le parole di Aleotti “I singoli progetti fanno una fiammata, bisogna puntare a cambiare le norme” e infatti il messaggio è destinato a cambiare le cose. Se oggi sono state allargate le maglie e gli stranieri possono giocare più liberamente lo si deve al ‘Brera style’ e la collaborazione dell’allora presidente della Lega Nazionale Dilettanti Carlo Tavecchio, proprio lo stesso scivolato sulla buccia di banana di ‘Optì Pobà’!
Basta così? Macché. Siamo nel 2002 quando vengono coinvolti gli artisti dell’Accademia di Brera per accompagnare le partite con delle action painting seguendo lo slogan “Più arte meno moda” e i giocatori si prestano alla realizzazione di un sexy calendario per smorzare l’eccessivo professionismo diffuso nei dilettanti.
Il Brera è tutto questo, buoni risultati sul campo e la ricerca di nuove sfide fuori, fino ad arrivare a quella più ambiziosa: portare il calcio nelle carceri.
La favola del FreeOpera Brera, la squadra di detenuti iscritta al campionato di Terza Categoria, attira anche l’attenzione del programma di Rai Tre “Sfide”. Un campionato di promozioni e retrocessioni ha obiettivi che vanno ben oltre la partitella dell’ora d’aria, per questo il progetto del Brera và al di là della partita di beneficienza, al termine della quale in fondo il vip cena al ristorante e il carcerato torna nella propria cella.
Federcalcio e Ministero di Giustizia svilupparono un protocollo d’intesa che permettesse alle carceri di avere una squadra iscritta alla FIGC e alla fine tra mille ostacoli, deroghe e un tifo esagerato il FreeOpera Brera vinse addirittura il campionato e fa niente se al termine della stagione le strade si divisero perché il seme ormai era stato gettato. Se oggi in altre carceri del nostro paese ci sono squadre iscritte ai campionati dilettantistici lo si deve ancora una volta alla controcorrente Terza squadra di Milano.
A fine stagione quando il direttore di Opera prese le redini della squadra, tralasciando l’obiettivo di usare il calcio come strumento di riscatto sociale, Aleotti preferì stringergli la mano e guardare oltre. D’altronde qui amano definirsi “Comunque vincenti” perché non misurano i successi in base al risultato del campo ma secondo l’innovazione che un progetto calcistico può portare.
Anche la maglia da allenamento rispecchia il Brera style
Martinitt è il titolo di un’ altra romantica pagina della storia neroverde, una squadra CSI composta dai minori disagiati dell’omonimo istituto di assistenza milanese. I ragazzi, appartenenti a etnie diverse, inizialmente non vogliono giocare insieme ma superano le resistenze razziali e grazie all’irresistibile calamita del pallone si amalgamano per diventare competitivi.
L’iniziativa viene premiata anche alla Scala ma l’orgoglio più grande è aver usato ancora una volta il calcio come strumento di socializzazione e integrazione e così il fenomeno mediatico del Brera cresce nonostante la squadra scivoli giù fino alla Prima Categoria.
Insomma, qui dalla serie D alla Seconda Categoria non si sono fatti mancare nulla e l’unico vero rammarico è la poca partecipazione dovuta a un palcoscenico dilettantistico al momento basso ma per il resto il Brera è una piccola ‘grande squadra’ che gioca nello stadio che ha visto i primi scudetti nerazzurri. Quando il Presidente alza gli occhi verso l’Arena ammette che l’affitto è dieci volte superiore a qualsiasi altro campo ma l’emozione è troppo grande. E poi il Brera deve giocare nel quartiere degli artisti!
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Il privilegio di giocare all’Arena, anche questo è il Brera
A testimonianza che un altro calcio sia ancora possibile vengono messi in rete due documentari. “Fino all’ultimo pallone” racconta la storia di una gruppo di giocatori giovani che non si disunisce e accetta con serenità commovente la retrocessione in Promozione mentre “Promossi in promozione” descrive la gioia per la cavalcata pazzesca che riporta il Brera in Promozione attraverso i play off.
Come normale che sia il laboratorio del Brera ha visto anche esperimenti falliti come la compagine di italoargentini allestita per il campionato di Eccellenza 2003/2004 e il progetto “Il Brera dei tifosi” del 2008/2009. Nel primo caso la squadra di oriundi giocò uno straordinario girone di andata e un mediocre ritorno a causa del passo indietro fatto da Eurobaire, partner dell’iniziativa. Il secondo non si tratta di un azionariato popolare ma del tentativo di coinvolgere i tifosi (associati gratuitamente) nelle decisioni tecniche. Una pazza idea per ridare il calcio nelle mani di chi più lo ama, i tifosi, facendoli sentire protagonisti e non solo spettatori passivi e probabilmente il progetto fallì solo per la mancanza di un forte senso di appartenenza storico.
Il tipico terzo tempo neroverde
In un sistema antico e rigido come quello del calcio il Brera combatte battaglie originali e coraggiose che meritano di essere comprese leggendo “Il calcio perfetto” (scaricabile gratuitamente su www.breracalcio.it), il libro in cui Aleotti prova a spezzare la filiera del calcio che dalla Serie A alla Terza Categoria ragiona con l’ottusa mentalità del “si è sempre fatto così”.
“Il Brera è la terza squadra di Milano. In alcuni momenti lo è stata per categoria, lo è da sempre per notorietà ma soprattutto lo è per la capacità di realizzare dei progetti originali” – sono le parole pronunciate con orgoglio – “e se c’è un brand che può essere portato nel professionismo del calcio a Milano è il Brera”.
Compiuto il decennale si sono presi una pausa di riflessione di un paio d’anni per dedicarsi completamente alla scuola calcio ludica non competitiva perché secondo il Presidente “Le figure adulte le abbiano istituzionalizzate senza dare una figura di maestri. L’esasperazione dei genitori porta addirittura all’abbandono una volta raggiunti i 14-15 anni, per questo la Scuola Calcio Brera è improntata sul puro divertimento”.
Si prendono le distanze quindi dal classico settore giovanile, un sistema che, sempre secondo Aleotti, andrebbe riformato ispirandosi al modello americano. Pur senza arrivare ad usare la scuola come unico sistema di reclutamento degli atleti auspica a una stretta collaborazione tra società sportive e insegnanti.
Quella col Pres e suo figlio Leonardo è una chiacchierata densissima che mi rivela molto più di ciò che mi aspettassi alla vigilia. Milano è coperta da un cielo incredibilmente terso, l’aria fresca della primavera ha attirato runner e famiglie, biciclette e passeggini e, proprio mentre li aspetto, mi passa davanti un padre barbuto e tatuato che lancia a un amico un consiglio stridente col suo look: “Dovresti assaggiare la piadina vegan!”. Presagio di un incontro fuori dall’ordinario perché ‘piadina’ e ‘vegan’ sono parole che mai avrei pensato di sentir pronunciare una di seguito all’altra!
Arrivare al campo in modo cool? Qui si può
Non si parla solo di calcio di periferia ma l’attenzione si sposta anche sui motivi della crisi del calcio italiano e delle nostre società terribilmente indietro. Troppo spesso si sbandiera il paragone con l’esempio tedesco ma su questo le idee sono chiare: “La Germania non è l’Italia, in qualunque campo tu voglia fare delle comparazioni devi studiare le antropologie. I tedeschi esprimono una capacità organizzativa, una dedizione, uno spossessamento di sé rispetto a un obiettivo che è cento volte il nostro. Lo sono anche le loro tragedie. Noi siamo un modello che deve guardare al modello latino. Le società sono delle grandi associazioni democratiche in cui i tifosi ogni quattro anni eleggono un management che si deve presentare con un progetto credibile e economicamente sostenibile”.
L’errore, secondo Aleotti, è stato questo: “Abbiamo emulato il modello anglosassone di società quotate in borsa come Spa ma il problema è che il sistema anglosassone ha orientato anche la normativa sportiva al business, pensiamo al fatto che non ci siano retrocessioni negli States. Tutto è finalizzato a uno spettacolo che produca ricchezza e che sia bello dal punto di vista della competizione. Noi siamo stati a metà strada”.
A questo punto non posso non chiedergli quale sarebbe la sua ricetta e con grande prontezza risponde: “Il giocattolo in mano al padre-padrone al quale eravamo abituati si è rotto. Ogni società ha un bacino di utenza territoriale che permette, numeri alla mano, disponibilità economiche superiori rispetto a quelle delle loro attuali proprietà. Avere una base così larga di soci partecipanti e coinvolti nelle scelte fa sentire parte del club. Nel nostro paese la squadra è uno dei più importanti simboli della città, il calcio è una delle maggiori identità percepite dell’Occidente e se tutte le identità si riassumessero nella squadra nascerebbero numeri pazzeschi di fatturato. Le identità sono qualcosa che si sedimenta nel tempo e su questa si deve puntare”.
Ma torniamo all’inizio del pezzo e alla vittoria del campionato raggiunta con una mentalità mai sentita prima. Il fatto di allenarsi poco, presentarsi al campo poco prima del fischio d’inizio, festeggiare vittorie e sconfitte a suon di birre e salame è nata l’anno scorso. Il 2013/2014 è stata una stagione totalmente folle e se fossimo in America e si parlasse di baseball avrebbe già prodotto il film “La squadra più pazza del mondo”. Per difendere certe idee però non occorre essere matti ma soltanto crederci fino in fondo. L’obiettivo era sfidare il dilettantismo che imita il professionismo con due zeri in meno sugli assegni, vincere l’esasperazione diffusa in categorie così basse dove è assurdo gettare soldi, realtà in cui la priorità dovrebbe essere il divertimento, il piacere di togliersi la tuta da operaio e infilare le scarpe di Pirlo, unico paragone possibile. Troppo spesso invece si parla ai giocatori come se fossero Pirlo e il risultato sono mercenari che scelgono una maglia piuttosto che un’altra in base a ridicoli rimborsi spese.
Le abitudini del Brera possono sembrare esagerate ma secondo il suo numero uno – “I giocatori cercano sempre libertà. Il problema è che cercano libertà nella misura in cui questa non viene concessa”. Non tutti hanno compreso il messaggio e Aleotti non nasconde il dispiacere di essere apparsi arroganti agli occhi di molti avversari ma sottolinea che “Insistere troppo su aspetti che non hanno a che fare col talento non produce risultati sportivi”.
“Mai un allenamento solo il talento” è il libro che racconta in maniera divertentissima il cantiere dov’è nata questa impresa. L’anno scorso sono rimasti fedeli a questa mentalità nonostante undici sconfitte nelle prime quattordici partite. Poi grazie alle doti di qualche calciatore stagionato sceso di categoria e una rosa ricchissima di stranieri i neroverdi hanno spiccato il volo nel girone di ritorno fino a trovare la giusta dimensione in questa stagione culminata con l’accesso in Prima Categoria.
Non ci crederete ma quella raccontata in questo libro è una storia vera!
Certo cambiando il livello cambierà anche la gradazione di questo spirito ma non sembrano molto intenzionati a snaturarsi. Cosa combineranno il prossimo anno? Per ora non si sa ma non sembrano affatto preoccupati, anzi!
Sono volate via più di due ore in compagnia di Aleotti e il figlio Leonardo. Il loro divertimento e la serenità con la quale coltivano una passione così grande ha permesso al Brera di vincere partite ben più difficili di quelle di un campionato di Eccellenza. Hanno rinfrescato i palazzi umidi del calcio italiano, hanno sfidato la burocrazia di un mondo che in Italia necessita rinnovamento e qui c’è ancora qualcuno che vive questo gioco in maniera romantica. Li saluto e mentre mi incammino mi torna in mente una frase di Bono, leader degli U2, uno che di sentimenti se ne intende: “Nella vita per poterti reinventare devi prendere le distanze dal tuo passato. Solo allora potrai creare una nuova immagine di te stesso ma nel mezzo c’è il nulla. Devi rischiare il tutto per tutto”.
E al Brera ho trovato qualcuno capace di rischiare veramente.