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I BUONI ARTISTI COPIANO

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I buoni artisti copiano, i grandi rubano disse Pablo Picasso. Mentre riflettete se sia vero confrontate questi spot.

Tralasciamo che lo spot della Nike metta i brividi mentre quello di Sky abbia il tenore di dove c’è Barilla c’è casa. Tralasciamo che quello della Nike ti spinga a tifare Cleveland anche se non sapevi che avesse una squadra di basket mentre quello di Sky non commuove nemmeno gli appassionati di calcio. Se per un attimo dimentichiamo tutto questo, l’intenzione di Sky è quasi edificante. Chi segue il calcio sa che in Italia siamo ai minimi storici per interesse e competitività. Per rilanciarlo a cosa fanno appello? Alla passione collettiva. E allora prendiamoci per mano come Rugani e Florenzi. Il claim è chiaro: il calcio italiano riparte da tutti noi. Utopia. Pura utopia per un sistema che tratta i tifosi sempre più come clienti. Per non dire retorica visto che la deriva l’ha causata proprio il malsano connubio tra televisioni e club. Le società non fanno niente per aiutarsi, altro che darsi la mano. E i diritti tv? Sono spartiti tra le 20 squadre di serie A in maniera sproporzionata. Così i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri hanno sempre più fame. Così Napoli-Benevento finisce 6-0, Chievo-Spal è una partita inguardabile e la Juve in dieci ne fa 6 all’Udinese. Però con lo spezzatino possiamo vederle tutte. Che gioia.
Abbiamo scimmiottato la pubblicità così come il modello americano dello sport a servizio delle televisioni. Ma facciamo un passo indietro. LeBron James esorta compagni e concittadini ad aiutarlo. A dare tutto. Il ragazzone di Cleveland, città orribile con una squadra tra le più perdenti del NBA, decide di andare a giocare nei Cavaliers per regalare il titolo alla sua gente (e ci riuscirà). Del tipo Ok sono il migliore ma da solo non posso farcela. Per come è organizzato il loro sistema il messaggio è coerente.
Facciamo un altro passo indietro. Perché i poveri Cleveland Cavaliers possono permettersi il più forte, il più pagato, il più ambito? Perché esiste il Revenue sharing che impone alle franchige più ricche di versare fino al 25% dei profitti in un fondo comune. Si può discutere sulla bontà del reclutamento affidato alle scuole dal momento che attorno ai campionati universitari girano un sacco di milioni. Ovvero, siamo sicuri che alla North Carolina University interessi davvero l’istruzione della sua ala se segna 30 punti a partita? Soprattutto se quei 30 punti vengono trasmessi in diretta. E se i voti non contano, allora chi gli risparmierà di diventare un commesso se dovesse rompersi il tendine d’Achille? Ma tralasciando questo discorso, da quelle parti se puntano su qualcosa lo fanno fino in fondo. Questo non glielo si può togliere.
Se un paperone decide di immette liquidi a Boston piuttosto che a Phoenix sposta l’ago della bilancia ma l’equità con cui spartiscono i diritti televisivi alza il livello medio, garantisce equilibrio e uno spettacolo godibile. In più il tycoon di Boston ha un tetto massimo di 100 milioni da spendere. E se lo sfora paga la luxury tax, ovvero per ogni milioni in più ne versa il doppio alla Lega che lo distribuisce a tutti gli altri paperini. Ergo: esiste il Paris Saint Germain di turno ma coi suoi dollaroni contribuisce ad arricchire tutti gli altri.
Concetti distanti anni luce per la classe dirigente del calcio italiano. C’è poco da stupirsi, ha lo stesso dna di quella parlamentare. Intanto, tra le dimissioni di Tavecchio e la mancata qualificazione ai Mondiali smettiamo di copiare e torniamo grandi. Stavolta davvero.




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