Mi stavo annoiando davanti al pc, probabilmente di fronte al groviglio di linee di qualche disegno, quando un ragazzo con un paio d’anni meno di me, alla domanda di una giornalista: “Che hai fatto quest’estate?”, rispose: “Gniente, sò stato ar mare a Ostia. Come ssempre”.
Era seduto su un’utilitaria davanti al cancello di Trigoria, con meno di vent’anni e le guance scavate sotto gli zigomi. Poco dopo disse a un altro giornalista di voler rimanere attaccato a quel gruppo il più a lungo possibile. Quel ragazzo si sentiva solo di passaggio in mezzo a gente come Totti, Cassano, Guardiola, Cafu, Samuel, giusto per fare qualche nome. Ancora non sapeva che quella maglia per sedici anni non l’avrebbe più tolta, se non per lanciarla a qualche tifoso in curva.
Oggi Daniele De Rossi è un uomo che dice addio con le guance gonfie e seicento e passa presenze con la Roma. Ha la barba un po’ del boscaiolo che ha affettato caviglie nella selva del centrocampo e un po’ del coatto che si è tatuato il cartello pericolo di tackle. Non ha studiato ma sa che le società ormai sono aziende che quando arriva l’ora ti mettono da parte senza troppi convenevoli. E chissenefraga se dormi male per i dolori dell’allenamento o non dormi proprio per la mancata riconoscenza.
Per prendere sonno, invece che contare quante pecore ci sono in azienda, magari ripenserà a quel rigore calciato forte, incrociato, in finale Mondiale. E l’esultanza a pugni stretti, incazzati. Aveva già le palle grosse per presentarsi sul dischetto dopo aver rotto il naso all’americano McBride e quattro giornate di squalifica. Ma queste cose alle società, ops alle aziende, non interessano.
Le ricordano i tifosi come me o quelli che lo hanno soprannominato Capitan Futuro, come il cartone che guardavano da piccoli dopo scola, come direbbe Daniele. Il presente è fatto di stadi sempre più piccoli, tifosi con la memoria corta e squadre vestite come al Palio di Siena eppure Capitan Futuro ha detto che invecchierà sulle gradinate dell’Olimpico guardando la Roma con un panino e una birra. La sua Roma però, non quella degli americani, con loro c’è poco feeling. Forse quel naso rotto era un segno.
Io non so come invecchierò, probabilmente mi crescerà la barba davanti ad altri disegni, ma Daniele De Rossi me lo immagino ancora sul bagnasciuga di Ostia a guardare le onde e i ragazzini palleggiare. Anch’io spero di passare del tempo sulle gradinate di qualche stadio con mio figlio.
Che palle però, quant’è noioso questo futuro in cui saremo vecchi e in scadenza, e quanto è giovane il concetto di passato, quando eravamo piccoli e tutti da fare. Ecco farò così, invecchierò come De Rossi: un po’ boscaiolo, un po’ coatto e molto ragazzo. Invecchiare da ragazzo, questo sì che sarebbe rivoluzionario. Invecchierò ricordando il passato, quando gli stadi erano grossi e le maglie a righe. Non per nostalgia, non per diventare un anziano retorico e noioso ma per mantenermi genuino come quel ragazzo che il giorno prima di iniziare il ritiro con la Roma se n’era annato afammbagno a Ostia.
Il calcio non è lo stesso di quando aspettavo i gol di 90° Minuto e Paolo Valenti con mio padre sul divano e mia madre che dalla cucina ci chiedeva quante partite mancavano per buttare la pasta. Lo so. Come so che ha preso la deriva del business e le squadre sono aziende bisognose di stadi di proprietà, fatturati, titoli in borsa. Arriverà un tempo in cui avremo stadi ancora più piccoli e maglie irriconoscibili ma quel giorno lontano dar mare de Ostia avrò raccontato a mio figlio di quell’uomo con la barba un po’ da boscaiolo, un po’ da coatto ma molto filosofo, che alla domanda se si fosse pentito di non aver cambiato maglia per vincere un po’ di più, rispose: “Ho solo un rimpianto. Quello di poter donare alla Roma una sola carriera”.
Capitan Futuro, ogni viaggio è un’Odissea
Capitan Futuro, cavaliere di un’idea
(Sigla Capitan Futuro)