Quello per il calcio non è stato amore a prima vista, ha goduto dei preliminari.
In un primo momento mi affascinarono i portieri; esseri originali, votati a difendere una porta grossa il doppio rispetto a quella di un garage.
Ma come fanno?
Chiesi in dono dei guanti rossi in nylon con i polpastrelli gommati. Che sudore alle mani e che noia vedere gli altri contendersi la palla.
Così abbandonai i due platani, che a scuola rappresentavano i pali della porta, per iniziare un’impervia carriera da terzino dilettante.
Il tifoso che c’è dentro me non ha una data di nascita. Ero piccolissimo. Dapprima, quando non mi ero reso conto che i calciatori veri non segnavano tra i platani, mi affascinò Ruud Gullit: un supereroe dalla pelle d’ebano, i baffi alla Magnum P.I. e le treccine.
Un collega di mia madre mi regalò il cappellino con le treccine finte. Gioia vera. Era il tentativo di contagiare un’anima candida col virus del tifo ma evidentemente avevo troppi anticorpi e non mi intaccò.
Diventai un tifoso poco più tardi, per colpa, o meglio per fortuna, di un signore canuto che fischiava ai suoi giocatori come il pastore richiama il cane al suo dovere.
Nel frattempo da piccolissimo ero diventato piccolo, scoprendo il significato della classifica, la durata di una partita, la presenza di un arbitro.
Giovanni Trapattoni e la stagione ’88-’89 venne denominata quella dei record perché l’Inter batté ogni primato per un campionato a 16 squadre. Considerato il mio invasamento, nonostante l’età, mi regalarono una videocassetta per chetarmi: L’anno del Biscione.
Non perdevano mai, sembravano la selezione terrestre da spedire su un’altra galassia per sfidare gli alieni.
Che illusione.
Ormai però ero contagiato.
L’intenzione mia non è rimembrare trent’anni di tifo nerazzurro, bensì una premessa per spiegare i 21 da gufo.
Sì perché il gufo che abita dentro me ha una precisa data di nascita, un luogo e un’ostetrica che gli hanno dato la luce.
23 maggio 1996, cortile del Liceo Scientifico e Moreno De Vitis.
Seguii la finale di Roma tra Juventus e Ajax all’oratorio, in mezzo a tifosi juventini. Avevo già trascorso drammatici campionati interisti e conosciuto personaggi paranormali del calibro di Darko Pancev, eppure la mia simpatia per le squadre italiane, fino a quel giorno, era sincera.
La finale si prolungò oltre il 90° e soprattutto oltre il mio coprifuoco. Tornai a casa a vigorose pedalate per seguire supplementari e rigori sul mio Mivar. Al sigillo di Jugović mi rallegrai, soprattutto per Gianluca Vialli. Che attaccante! E poi che bello che una squadra italiana avesse vinto in patria!
Il giorno dopo, durante l’intervallo, si riviveva la partita coi miei compagni tabagisti.
“Complimenti ragazzi, son proprio contento!”
“Ma stai zitto tu! Cosa ne puoi capire che FATE SCHIFO!”
Ti ringrazio Moreno De Vitis (nome di fantasia, tutto il resto è vero). Ti ringrazio per aver completato la mia sfera di tifoso, gettando il seme della sventura, una pianta sacra sul cui ramo si poggia all’occorrenza un gufo iettatore. Quel giorno Moreno De Vitis tirò un anatema che in confronto quello di Béla Guttman, nei confronti del Benfica, fa tenerezza.
28 Maggio 1997. Borussia Dortmund-Juventus 3-1
Io e tre amici milanisti ci rifugiammo a casa di uno di loro senza rivelarlo ad alcuno. Ordinammo una pizza e, nell’attesa, la madre di Francesco (altro nome di fantasia, tutto il resto è vero) ci chiese se gradivamo del gelato.
“Sì signora, grazie! Gentilissima. Cioccolato e crema”. I gusti cromaticamente più vicini alla maglia del Borussia.
Dal pronostico sembrava tutto già scritto e invece le nostre vibrazioni negative arrivarono fino a Monaco di Baviera, materializzandosi nell’arcobaleno dipinto da Ricken. Trionfo tedesco in Germania.
20 Maggio 1998. Real Madrid-Juventus 1-0
Stessi gufi, stessa casa, stessi posti, stessa pizza. Cambiò solo il gelato: tutto fiordilatte, nauseante ma bianco come la maglia del Real.
Funzionò. Non so come ma funzionò e Mijatović castigò i bianoneri in leggero fuorigioco.
Altra finta pacca sulla spalla di Moreno De Vitis. Ma l’esame di maturità era alle porte e le nostre strade a breve si sarebbero divise. Sembrava finita.
E invece.
28 Maggio 2003. Milan-Juventus 3-2 (dopo i calci di rigore)
Al Teatro dei sogni di Manchester va in scena lo spettacolo peggiore possibile per un interista, soprattutto dopo essere stati eliminati dal Diavolo con due pareggi in semifinale. Ho ancora negli occhi il miracolo di Abbiati su Kallon. Ma passiamo oltre.
E’ un po’ come chiedere a Salvatores se dare l’Oscar a Carlo Vanzina o Sergio Martino, che per L’allenatore nel pallone potrebbe pure meritarlo. Ma non è la sede per discuterne.
Sono nel bel mezzo di un conflitto d’interessi ma, dilaniato dal dubbio, alla fine pendo dalla parte del Milan per scongiurare la pressione psicologica alla quale sarei costretto dai miei amici gobbi in caso di successo bianconero. E poi il 5 Maggio è una ferita ancora freschissima.
La guardo da un amico milanista che per par condicio invita tutti. Gufo in silenzio. Ne esco ammaccato ma non rotto.
6 Giugno 2015. Barcellona – Juventus 3-1
I blaugrana sono favoriti ma si gioca a Berlino, dove Gigi e gli altri sono diventati Campioni del Mondo. Brutto segno. Meglio non rischiare. Un paio di telefonate ed eccoci: i soliti, quelli del gelato. Ne manca uno però, costretto al lavoro. Altro brutto segno. Nel frattempo sono passati anni; altra casa, altro divano, no gelato. Non esiste un gusto blu. Granata sì ma blu no. Non bene.
La sfanghiamo ma che sofferenza…
L’ultima è storia recente. Cambiano personaggi, luoghi e pizza ma la sostanza rimane.
“Beh ma in finale si tifa per la squadra italiana!” – contesterà qualcuno. Balle, hanno inventato la Nazionale per questo. Maglia azzurra, inno di Mameli. Mai sentito parlare? Lì puoi sfogare tutto il patriottismo che vuoi.
“Beh io alla fine quando l’Inter ha fatto il triplete ero contento. Se le meritavano!”. Falso. Oppure stai esplorando la nuova frontiera del tifo, un po’ come Gandhi che ha liberato l’India con la non-violenza. E allora convincimi, ti ascolto. Ma temo non ce la farai, non sei il primo.
Il tifoso è un gabbiano libero di volare sul mare dei successi conquistati e sognati che, se necessario, sa trasformarsi in un gufo pronto ad aspettare che il ramo della sventura getti un’ombra di sfiga sul rivale.
Ma attenzione, tifare non significare odiare tutti gli altri, bensì avere almeno un nemico. Come Batman ha Penguin, Tom ha Jerry, Topolino ha Gamba di legno.
Il calcio è uno sport popolare, nell’accezione più alta e allo stesso tempo più bassa del termine, un gioco che unisce i poli opposti dell’essere umano: talvolta nobile e commovente, altre vigliacco e infingardo.
E il sale di tutto questo è il tifo.
Facendo outing mi sono condannato a veder trionfare la Juve la prossima volta che andrà in finale. Ma tant’è.
Sostituite squadre, partite, luoghi, scaramanzie e vi riconoscerete in queste righe. Perché ognuno di voi ha un Moreno De Vitis. Almeno uno.
Non è né giusto, né sbagliato. Né bello, né brutto. E’ così e basta.
Per tutto il resto, c’è il rugby.