Della Calabria aveva la carnagione olivastra dei pescatori che tirano le reti con le lampare accese. Del Friuli il vizio di non finire mai un pasto senza grappa. Del Sud portava il nome: Gaspare. Del nord il cognome: Gaston.
Le guance paffute, di quelle che vorresti stringere tra pollice e indice, e la punta del naso arrossata dai capillari rotti mettevano voglia di sorridere. Gli occhi piccoli e incassati dentro orbite violacee te la facevano passare.
Sugli angoli della bocca, pronunciate più di venti parole, si raccoglieva della saliva. Pregavo ogni volta che non avesse molto da dire ma Gaspare Gaston, per gli amici Gas e per noi Mister, parlava poco e si muoveva con l’incedere di chi il tempo dei convenevoli l’ha scordato. Il suo, di tempo, lo scandiva un ridicolo orologio in plastica, di quelli trovati nel fusto del detersivo. E lui, da giovane, un fusto lo era stato davvero, con quel torace troppo grosso per contenersi in un abbraccio e la maglia a righe verticali celeste e salmone che ormai tirava sulla pancia. Lo sponsor di un fiorista sembrava una provocazione per uno che con dita così grosse non avrebbe mai potuto spogliare una margherita. Aveva un polsino talmente buffo da sembrare indossato per una scommessa persa e la nuca attraversata dal cordino di un fischietto in metallo che imparammo presto a odiare. Scandiva il ritmo delle ripetute attorno al campo, ribattezzate piramidi: 700, 800, 900, 1000 metri e poi 900, 800, 700. Al primo allenamento, tra una ripetuta e l’altra, mi accucciai in un angolo come una gatta che cerca intimità per partorire i cuccioli e vomitai dall’affanno.
Si dice che fosse stato un gran portiere. Vista la stazza non ne dubito, sull’agilità nutro qualche riserva. Pare avesse smesso durante una stagione travagliata in cui la squadra, rimasta orfana dell’allenatore dimissionario, gli chiese di prendere in mano il timone in quanto uomo di maggior esperienza. Probabilmente non aveva più molte cartucce da sparare perché se un mio compagno sa fare ancora cose importanti lo vorrei vedere in campo. Nonostante l’età. Ma questo lo aggiungo io.
I piedi segnavano costantemente le dieci e dieci, le gambe secche si aprivano a parentesi fuori da pantaloncini troppo corti per l’epoca. Portava calzettoni alti fino al ginocchio e scarpe più lucide di un ballerino, coi lacci che giravano attorno alla caviglia e la linguetta alzata a mo’ di ponte levatoio.
Ci chiamò per cognome, leggendo l’elenco da una cartellina sottratta a qualche armadietto in ufficio, e ci guardò con lo sguardo di un pugile che fissa l’avversario prima della campanella, quando le raccomandazioni dell’arbitro scorrono come panna nella saccapoche.
Il graffio della stilografica segnava la nostra presenza e la fine del tempo delle mele.
Foto di Andrea Cofano