Siamo in uno dei tanti döner kebab della città. Piccolo, sgabelli in plastica, vetri a mezza altezza, quotidiani del giorno prima, frigo delle birre e sciarpa del Galatasaray appesa al muro. Mi piace il cibo etnico, soprattutto da strada.
Questo però non è uno dei tanti döner kebab perché Görkem, il proprietario, oltre a cucinare il migliore della zona ha una storia alle spalle.
In realtà non lo conosco, o meglio quando entro mi saluta perché sono un cliente abituale, ma non ci siamo mai presentati. Una volta portai con orgoglio una coppia di amici, manco fosse il mio rifugio segreto.
Il nome l’ho sentito pronunciare da un cliente ma stavolta sono carico e vorrei conoscerlo, vorrei che quando entro mi chieda:”Ti faccio il solito?”. Il solito è kebab-panino-no-cipolla-no-piccante tutto d’un fiato.
C’è poca gente e penso che mai occasione sia più propizia. Dentro c’è solo un cliente al tavolino centrale che sta finendo di mangiare. E’ un signore tra i 50 e i 60 vestito da imbianchino. Ordino e mi siedo al solito posto, ovvero lungo i banchi attaccati al muro dandogli le spalle. Appena Görkem carica il vassoio mi fa notare che il cielo si è scurito e sembra stia per piovere.
“Speriamo di no” – rispondo.
“Sono pure in bicicletta” – aggiunge il mio ‘commensale’. Poi prosegue: “Ma se piove pazienza, al massimo mi bagno la testa. Nella vita ho imparato che ci sono cose peggiori”.
E’ la classica frase buttata lì e si scusa per avermi disturbato. Non sa che non aspettavo altro che fare conversazione e lo incalzo.
Inizia a raccontarmi, con spiccato accento genovese, che ha fatto tanti sbagli nella vita e col tempo ha rivisto le sue priorità. Nessun sermone, solo qualche accenno a un passato tutt’altro che banale. Finita la cena invita Görkem a bere un caffè nel bar a fianco ma non può lasciare il bancone e così esce da solo.
Non ci sono altri clienti e Görkem si avvicina per confidarmi che quel genovese è in realtà un pittore molto bravo che ha speso, e spende, tutti i soldi in troppi vizi. Che fosse un tipo particolare lo avevo intuito, quello che mi sfugge è come sia finito qui. Adesso che sono a pochi centimetri dal maestro del mio street food preferito non posso perdere l’occasione.
“E tu da quanto sei qui?”.
“Circa quindici anni”.
Rimango un po’ stupito perché parla davvero male considerando tutto questo tempo poi, ricordando il mio scarsissimo feeling con le lingue, rinsavisco e continuo:”Di dove sei?”
“Di una città del sud”- che quasi non vuole dire credendo sia troppo sconosciuta – “chiamata Gaziantep”.
Ignora che davanti a sé ha uno che il lunedì dopo la scuola aspettava solo “a tutta B” su Raitre, uno che conserva il “Forza Inter” del ’93 per scoprire se qualche giocatore della Primavera abbia fatto carriera, uno che da bambino la domenica mattina chiedeva al padre di accompagnarlo a vedere le partite nei campetti dietro casa.
“Gaziantep…certo, Gaziantepspor è la squadra di calcio. Maglia rossonera giusto? Gioca in serie A, qualche puntatina in Europa League…”
Non so altro ma è abbastanza per stupirlo e, spero, per guadagnarmi ‘il solito’. Ci tiene a precisare che tifa anche Galatasary e così lo aggiorno sul testa a testa in campionato col Fenerbahce. Poi inizia a raccontarmi la sua storia e la stima cresce parola dopo parola.
E’ la storia di uno dei tanti emigranti che, non trovando fortuna nel suo paese, lascia tutto per un salto nel buio. Una cosa che mai e poi mai avrei il coraggio di fare. Soprattutto da solo. E’ la storia di un ragazzo che si appoggia a un cugino che condivide un appartamento con dei connazionali e si ritrova senza sapere una parola a fare il turno di notte. E’ solo l’inizio. L’azienda chiude e il ragazzo si arrabatta in una cooperativa che lo piazza a consegnare giornali con un unico diktac: lavorate finchè potete. Tocca le 36 ore consecutive, schiavismo moderno.
Torna in patria sperando che qualcosa sia cambiato, soprattutto coi soldi mandati alla famiglia, ma il presente, se possibile, è ancora peggio.
L’unica posssibilità è tornare in Italia, stavolta sceglie l’est e, mal consigliato, apre un ristorante indebitandosi fino al collo. Dura poco, pochissimo. L’ultima chance è prendere in gestione uno dei tanti franchising che preparano kebab 16 ore al giorno, 365 giorni all’anno, sette giorni su sette. Fine. Stop. Non c’è altro da aggiungere.
In questi giorni, mentre mi trascino come il personaggio di un videogame con l’ultima tacca di energia, penso a lui che sorridendo cucina a 50 gradi con l’asciugamano al collo.
Nel frattempo torna il pittore di Genova con un caffè per Görkem e si siede al suo tavolo. Immaginano scenari possibili ma che probabilmente non realizzeranno mai. Il turco dice al genovese, e non è una barzelletta, che la sua professione ad Ankara è molto rischiesta e il genovese dice al turco, e non sta scherzando, che se vuole possono fare due biglietti di sola andata.
Intanto penso che, bollito come sono, li seguirei dappertutto. O quasi. Per cercare nuovi stimoli, certo, non per fuggire da quella paura cantata dagli Zen Circus.
A chi è andato a vivere a Londra
a Berlino, a Parigi, a Milano o Bologna
ma le paure non han fissa dimora
le vostre svolte son sogni di gloria
(“Andate tutti affanculo”)
Questi due la paura non sanno manco cosa sia, io un po’ meno.
Sono tornato a casa gasato perché ancora una volta il calcio, passepartout di infinite porte, ha rotto il ghiaccio. Ultimamente ho mangiato solo un’altra volta da Görkem, il clima d’altra parte non invoglia. Mentre lavorava in un girone dantesco, con un caldo che ti fa venir voglia di strapparti la pelle, mi ha consigliato di prendere un vassoio e mangiare sulle panchine dall’altra parte della strada. Il prossimo step è ‘il solito’. Me lo sento.
Estate. Caldo ma non caldissimo. Mi connetto col telefono e scopro che Gaziantep ha origini antichissime, il nome Gazi significa ‘guerriero vittorioso’ e se lo è meritato costringendo alla resa le truppe francesi durante la Guerra d’indipendenza turca mentre Görkem in italiano significa ‘imponenza, sontuosità’. Nomen omen.
Ho finito l’ultimo boccone. Torno dentro per restituire il vassoio e mentre mi chiedo se i suoi progetti col genovese abbiano preso forma esce una piccola creatura coi codini che mi dice: “Dallo al mio papà”. Tenerissima.
No, non andrà ad Ankara. Perlomeno adesso. Perché le paure non han fissa dimora.