Non so se siano stati gli anni migliori ma di certo non torneranno più. E un po’ mi dispiace perché a quel tempo tutto sembrava possibile.
Tranne diventare calciatori, quel sogno lo avevamo abbandonato da un pezzo. C’è chi aveva lasciato la scuola, chi perdeva la verginità, chi fumava le prime canne, chi studiava seriamente.
C’era un allenatore coi baffi alla Marrabbio che s’inventò uno schema assurdo su punizione. Le due punte, Stefano, col gagliardetto in mano, e Marco, alla sua sinistra, dovevano prolungare la barriera avversaria per coprire al portiere la traiettoria dei missili che sparava Ale, che in questa foto inspiegabilmente non c’è. Una volta li prese in pieno stomaco, facendoli piegare in due dal dolore. Aveva un tiro della madonna Campana. Una testa calda davvero forte. Giocava da libero, precursore di un ruolo in un’epoca in cui la modernità era rappresentata al massimo dalle scarpe bianche di Zani. Che tamarro che era Paolo. Gran terzino però, instancabile. Il meglio lo dava con 38 di febbre. Credo faccia ancora il panettiere.
Dietro a lui Andrea, l’unico che ha fatto un po’ di carriera andando oltre la Promozione. Una carriera da dilettante, ma pur sempre di livello. L’ho beccato l’altra sera in un gruppo jazz. Non sapevo neanche che cantasse. Baci sulle guance: “Oh sempre in formissima”. “Ma va, tu di più!”.
C’era Simo, detto Killer, l’unico che guarda dritto l’obiettivo. Ed è strano perché non c’erano molti fotografi a riprendere le nostre partite. Però eravamo stilosi. I quindicenni di oggi sarebbero tutti sbragati con la maglia fuori dai pantaloncini. Guardate noi: mani dietro la schiena quelli in piedi, ginocchio sinistro in alto quelli accovacciati. Tutti uguali, seri, precisi. Eppure c’era chi aveva già lasciato la scuola, chi aveva scoperto la figa, chi le canne.
Chi entrambe.
Così si va in campo. E’ così che si andava in campo.
Per me Crise, quello col gagliardetto, era un fenomeno. Segnava gol assurdi. Ha avuto un sacco di noie fisiche, peccato. Marco invece segnava meno ma si faceva chiamare Bomber e parlava di sé in terza persona. Entrava in campo gonfiando il petto come i pugili quando l’arbitro fa le ultime raccomandazioni. Purtroppo ci siamo allontanati. Geograficamente parlando, perché lo sento vicino come se fosse qui mentre scrivo.
C’era Monta con le mani sulla vita e le Diadora col baffo verde, il nostro soldatino Di Livio. Che ridere quando lo imitava saltellare dopo la vittoria della Champions. Era uguale. Furetto imprendile sulla fascia. Immarcabile. Di fianco a lui Alessio, uno stopper vecchio stampo che penso non abbia mai perso un contrasto. Non tirava indietro la gamba manco se gli sparavano.
C’era Lomba con le sue lunghe leve magre. Centrocampista elegante e ordinato come pochi. A guardar bene la sua spalla è più alta di quella del mister.
C’era Calca, con la carnagione da indio e la smorfia di uno a cui non bisogna dar troppe lezioni. A fianco a lui Costa, che conosco dalle elementari e quand’era malato mi telefonava per chiedermi che compiti aveva dato la maestra.
Poi c’ero io, quello con la fascia da capitano. Giocavo ala sinistra, facevo decine di chilometri e pochissimi gol. Arrivavo sul fondo e il più delle volte sbagliavo il cross. Rincorrevo l’avversario, rubavo palla, triangolavo con un compagno, tornavo sul fondo e risbagliavo il cross. Ero duttile tatticamente, costante, tenace. Però nel calcio ci vuole di più. E infatti al massimo ho assaggiato la Promozione.
Il capitano non è il più forte, altrimenti lo avrebbe fatto qualcun altro. E’ un giocatore carismatico, un punto di riferimento per i compagni mentre io, riguardando una foto di vent’anni fa, ero solo un bravo ragazzo in mezzo a due bravi ragazzi: Lovi, il portiere, ci ha lasciato tra le lamiere di un’auto una notte di tanti anni fa e tu Carma sulla neve in una domenica di gennaio.
Lovi non era un fenomeno tra i pali, anzi. Ma era un pezzo di pane. E non ci lasciava mai soli. Le uscite erano il suo punto debole, le parate d’istinto, magari stilisticamente meno belle ma efficaci, il suo forte.
Quanto s’incazzava con Carma quando lo bersagliava prima dell’allenamento con delle bombe ravvicinate!
“Davide non così forte! O almeno allontanati!”
Io non ho mai calciato a freddo. Mentalmente sono un professionista. Solo mentalmente.
Tu invece Carma eri un pazzo. O forse il pazzo ero io che a quattordici anni invece che calciare in porta perfezionavo lo stretching. Forse è per questo che Mario mi diede la fascia. Bella roba. Spero che per questo non avrai pensato che fossi uno sfigato.
Me lo ricordo il tuo sorriso Carma, largo come quello di un clown. Ma tu a differenza dei pagliacci non avevi bisogno del trucco per allargalo. Era naturale. E lo facevi risplendere in tutti noi. Le tue battute, la tua grassa risata, la tua chioma impossibile da pettinare.
Avrei voluto che non finissero mai quelle trasferte in pullman da Torino, anche se tornavamo con le ossa rotte. Ci facevi ridere. Mi ricordo un duetto con Andrea sulle note de “La terra dei Cachi”.
Manca qualcuno come Gigi, Daniele e Diego, Maurizio, Ivan e Manuel ma ricordo bene la partita di quella foto, su quel campo impossibile. Un torneo che giocavamo a Intra il giorno di Pasquetta: semifinale alla mattina e finale al pomeriggio. In mezzo un pranzo coi genitori, una scusa per far gruppo. Loro spezzatino e vino rosso, noi pasta al pomodoro e bistecca.
Vincemmo la prima partita ma al pomeriggio Lovi dovette tornare a casa e per una volta ci lasciò soli. Siccome il portiere di riserva non ce l’avevamo, contro il Borgosesia t’improvvisasti tra i pali. Parasti tutto. Mi ricordo una mano protesa a fil di palo, un colpo di reni fisicamente inspiegabile. Ma come hai fatto?
Dopo il vantaggio ci barricammo in difesa e tu prendesti anche le mosche. Vincemmo uno a zero. Portammo a casa la Coppa grazie alle tue parate.
Adesso starai sfottendo Lovi: “Per fortuna non c’eri in finale, altrimenti avremmo perso!” Vi vedo già battibeccare. Però ha ragione Lovi, sei troppo vicino per calciare da lì. E’ troppo buono e ti farà calciare lo stesso, magari sbuffando senza farsi vedere. Che coppia.
Altroché centrocampista, sei sempre stato un anarchico.
E che ridere quando hai comprato le Predator con le squame sul collo del piede convinto che ti avrebbero fatto segnare gol alla Del Piero.
Ero indeciso se scrivere di te, di Lovi, di quegli anni. La notizia di domenica mi ha squarciato in due e mi sono chiesto perché, visto che le strade si sono divise tanti anni fa.
Poi mi sono messo a picchiettare la tastiera con foga perché vorrei tanto che mio figlio un giorno capisca cosa significa aver avuto un compagno di squadra. Vorrei che sappia che se hai messo la sua stessa maglia una volta, la indossi per sempre.
Vorrei che leggendo queste righe si renda conto di quale indissolubile legame si crei tra chi ha condiviso uno spogliatoio. Di quale segno incancellabile lasci un ragazzo che per te ha rischiato la gamba negli anni in cui tutto sembrava possibile, tranne fare i calciatori. E allora perché rischiavamo la gamba l’uno per l’altro?
I tuoi amici hanno colorato un giorno nero con un furgone pittoresco, collane hawaiane, cori e battimani. Nel tuo stile. Un po’ li ho invidiati. Chissà quante ne avranno combinate con te. Non ho mai visto una chiesa così piena.
Filosofi e illuminati si sono interrogati sul significato profondo del Karma induista.
Il mio Carma era spensieratezza, gioia, coraggio. Il mio Carma è un colpo di testa contro il Masera in cui c’hai rimesso il naso pur di segnare. Sei salito in cielo e hai gonfiato la rete. E hai finito la partita con un rigolo di sangue che colava sul labbro.
Domenica in cielo ci sei salito veramente ma ti prego, da lassù, non guardarmi come uno sfigato se faccio ancora stretching prima dell’allenamento. Non fare il furbo Davide, sono ancora il tuo capitano.
Pensa che il Carma era così trasgressivo che a 9 anni era venuto a giocare a pallavolo (novità assoluta per i bambini cameresi): era uno dei pochissimi maschi che avevano osato trasgredire la scelta scontata del calcio. Era fortunato perché era alto, sfacciato e “sfularmà” (scalmanato in dialetto camerese). Tecnica zero, potenza ed entusiasmo a mille. Ricordo che mi faceva morire dal ridere e che cercavo di imitarlo, ma non avevo tutte quelle energie ed ero anche di due anni più piccola. Mi ha spezzato il cuore leggere della sua dipartita, perché anche se era uscito dalla mia vita quotidiana era parte di quella giovanile, e come per molti altri, era impossibile non volergli bene, era impossibile dimenticarselo. Adesso ce lo ricorderemo ancora di più, anche se per il motivo più doloroso. Ciao, amico mio!
Ciao Sergio essere capitano non vuol significare il più bravo di tutti, e tu lo eri, ma colui che si sacrifica per la squadra e che propina esempi di correttezza, di sacrificio, di dedizione, di educazione. Esempio incommensurabile per i tuoi compagni, grazie Sergio, il tuo mister, Mario Colelli.
grazie mio grande capitano, un tributo che mi ha toccato il cuore, tu grande capitano hai fatto pù grande un tuo compagno capitano
Bravo Sergio bellissimo tributo!rricordo anche io le partite tra voi giovanissimi e noi allievi!inizialmente Carma mi trasmetteva tensione per la sua stazza fisica ma poi dopo ogni amichevole erano sempre abbracci!un grande persona fin da piccolo!
Una lettera d’amore,quell’amore dove finalmente il sesso e gli interessi non sono presenti. Io vi ho conosciuti tutti, ragazzi, quando venivate all’agrifans a giocare a calcetto o a fare una grigliata. Anche quando veniva quella testa matta piena di riccioli con la sua vespetta anni 70 , tutto orgoglioso. Gli dicevo : fai il bravo Davide eh e lui mi guardava col suo sorriso largo e mi diceva “tranquillo Guido , li controllo tutti io” e poi il bravo lo faceva davvero, come quando giocava con la squadra più “variopinta” dei nostri tornei e teneva a bada i più ribelli. Ahhh sta testa matta, ci ha preceduto di un pochino ma per il breve tempo che trascorreremo tutti qui, questi ragazzi rimarranno nei nostri cuori fino a quando , nel brevissimo spazio della vita di ogniuno di noi ci rincontreremo e forse ci prenderemo tutti per il ….. ciao ragazzi se vedemu. Guido
bravo Sergio
ci hai fatto piangere
i tuoi genitori