Da ragazzino c’era un momento che segnava inesorabilmente l’inizio dell’estate. Un’immagine ben più forte delle giornate che si allungavano, dell’afa e le zanzare che s’impossessavano della mia città o delle gonne delle compagne di classe: lo spot del Festivalbar.
Non importa quanto fosse complicata la mia situazione scolastica, il pubblico dell’Arena di Verona aveva il potere di farmi camminare più leggero e col ghigno ebete di chi sa di avere alle porte tre mesi di vacanza.
Sul quel palco passavano tutti i miei preferiti, le icone della musica italiana e le meteore pop internazionali, ma soprattutto c’erano gli esponenti della dance commerciale, con le loro lunghissime treccine in testa e le catenazze d’oro al collo. Tra Corona e La Bouche il ventaglio era ricchissimo e tra le tante, chissà perché, mi torna in mente “Point Of No Return” dei Centory, cafonissima band tedesca. Correva l’anno 1994. Nel brano c’è il rap di Turbo B, frontman degli Snap!, quelli di “Rhythm Is a Dancer” per intenderci, mica cotiche. Ma non divaghiamo.
“Point Of No Return”, oltre ad essere un ballabilissimo pezzo che accompagnava le domeniche pomeriggio di chi in discoteca non aveva l’età per andarci la sera, è il titolo migliore possibile per presentare la sera del 24 maggio 1995 quando le scarpe bianche di Marco Simone segnarono il punto di non ritorno del calcio mondiale.
Milan e Ajax si affrontavano per la finale di Champions, partita che seguii dalla mia Mivar grigia, profonda e dagli spigoli arrotondati. La fede interista era così tenera da impedirmi di gufare i cugini e mi gustai lo spettacolo in maniera neutrale.
All’inizio del riscaldamento pensavo fosse uscito scalzo per scegliere quali tacchetti usare, poi pensai avesse le scarpe da ginnastica, infine, dopo la foto di rito, non c’erano più dubbi: aveva davvero le scarpe bianche!
Quella notte crollò per sempre il dogma calcistico delle scarpe nere col baffo bianco, trasgredite al massimo da un simbolo giallo o verde fluo. “Roba da matti! Ma stiamo scherzando? Che pagliacciata! Chi vuoi che le compri?!”. Mi sbagliavo di grosso perché le sue Valsport modello Fuoriclasse, che avevo nella versione rigorosamente nera, fecero breccia in un terrotorio che sembrava inaccessibile.
Oggi la Valsport è stata spazzata via dai plasticoni colorati di Nike e Adidas, ma quella mossa anticonformista diede il via a qualsiasi esperimento cromatico e dopo il camouflage, il pois e lo scozzese avremo finalmente toccato il fondo del kitch.
E’ curioso il fatto che, da regolamento, le scarpe sono anche l’unico indumento che può non essere indossato, a patto che tutti i calciatori in campo giochino scalzi. All’epoca il ciuffo ossigenato e l’orecchino erano il massimo dell’azzardo ma questa è la top five di chi, giocando con la divisa, è riuscito più o meno a rompere gli schemi.
5 – Del Piero
Al quinto posto il vezzo che ha preso meno piede. Vero architetto del pizzetto, Pinturicchio ha cambiato molti look: dal capello lungo alla testa rasata, passando per lunghissime basette a punta, ma ha cercato il salto di qualità coi laccetti per sostenere i calzettoni. Quanto fossero indispensabili non lo sapremo mai, sta di fatto che, pur abbandonandoli presto, ha contagiato qualche promessa mancata di provincia.
4 – Baresi
“Niente braccialetti, orecchini e collanine. Ah, la maglia dentro i pantaloncini almeno per l’ingresso in campo!”. Questo è il ritornello ripetuto dagli arbitri di ogni latitudine. E vale per tutti sia chiaro. Tutti tranne uno. Sì perché capitan Baresi, il “6 per sempre” della Fossa, ha sempre tenuto la maglia fuori. Ma se nemmeno Pairetto e Collina hanno osato dirgli qualcosa chi sono io per farlo?
E’ rimasto l’unico gesto fuori dalle righe di una carriera densa di umiltà e disciplina. Quello del libero è un ruolo che, così come l’ha interpretato lui, non esiste più. Giusto ritirare la numero 6, una casacca che nessuno indosserà con lo stesso stile.
3 – Cantona
Irascibile, folle, smisurato. Tutto vero. Vent’anni fa rimediò nove mesi di squalifica e 120 ore di lavoro socialmente utile per un colpo di kung fu rifilato a un tifoso del Crystal Palace. Battibecchi con arbitri, duelli con avversari, magie in campo e l’ “orevuar” più famoso della storia della tv. I compagni lo hanno rispettato per la personalità, gli allenatori per la classe e i tifosi per le giocate sopraffini. Siccome nessuno è profeta in patria, con la maglia della Francia si è tolto ben poche soddisfazioni ma all’Old Trafford è diventato un mito anche grazie a quel colletto tirato su, giusto per sottolineare che c’è chi può e chi non può.
Una mossa così strafottente che pochi hanno avuto il coraggio di imitare. Ci vuole un’insana dose di carisma.
2 – Baggio
Capitani si diventa, leader si nasce. Uomo di poche parole, trovò nel buddhismo la tana dove accantonare le sconfitte e costruire le vittorie. Intraprese questo cammino nel 1988 e c’è chi azzarda che per questo motivo segnò all’88° minuto l’insperato gol contro la Nigeria nel mondiale americano.
Dal 1992/93 ha portato al braccio il blu della compassione verso tutti gli essere umani, il giallo dell’insegnamento di Buddha Shakyamuni, una via lontana da qualsiasi estremo, e il rosso della pratica spirituale e meditativa. Con quella fascia ha alzato il Pallone d’Oro, è caduto e si è rialzato più volte seguendo il Soka Gakkai, il “Vincere Sempre” buddhista ricamato a mano.
Col tempo gli ideogrammi hanno lasciato spazio al logo della squadra ma intanto la fascia è diventata un cimelio stravenduto alle bancarelle fuori dallo stadio.
Bandiere come Zanetti e Totti ne hanno personalizzate una caterva da vendere alle aste benefiche.
A Brescia soltanto in un’occasione Baggio non la indossò perché subentrato dalla panchina. Quel pomeriggio un certo Pep Guardiola, capitano in campo, gli diede la sua in segno di rispetto. Se non è devozione poco ci manca. Può bastare per il secondo posto?
1 – Henry
Al numero uno il pistolero che ha sparato più colpi nella storia internazionale dei Gunners. Highbury è stato il suo parco di divertimenti per quasi dieci anni, lo ha lasciato solo per cedere al fascino del Camp Nou, tempio dei blaugrana. Decise di godersi il crepuscolo della carriera niente meno che a New York, con la variopinta maglia dei Red Bulls. Qui però inizia un’altra incredibile favola. Nel gennaio 2012 la MLS è ferma e per non perdere la forma Henry, in accordo con la società, torna a casa in prestito per due mesi. La stampa storce il naso, giudicandola una mossa più commerciale che tecnica, nonostante i tifosi lo amino alla follia. L’Arsenal è in crisi ma l’aria di Londra è speciale e il suo maestro Wenger lo butta dentro contro il Leeds in FA Cup e dieci minuti dopo l’ingresso piazza il suo classico colpo da biliardo. Basterebbe questo a rendere il suo ritorno magico ma Titì nell’ultima partita, a tempo scaduto, regala la vittoria contro il Sunderland. Sciapò Thierry. E qui le lacrime non si contano.
Ah già, c’è un piccolo particolare che ha esportato in tutto il pianeta, dal mondiale di Neymar al torneo dei bar di San Benedetto del Tronto, un particolare che troverete su ogni campo: quel calzettone sopra al ginocchio eternamente pulito. Eh sì, perché per abbatterlo bisognava prima riuscire a prenderlo. Highbury non c’è più, in parte demolito, in parte trasformato in appartamenti. Il nuovo impianto è l’Emirate Stadium, pochi metri più in là, dove troverete la sua statua in bronzo. Perché la storia cambia ma non si dimentica.
Per inciso il Festivalbar ’95 lo vinsero gli 883 con “Tieni il tempo” e il gol di Kluivert mi fece pensare che forse la mia fede interista non era poi così tanto candida visto che mi sentii sollevato nel vedere l’Ajax alzare la coppa al posto del Milan. Ma anche questa è un’altra storia. Let’s dance!