Si narra che il settimo giorno, creato l’uomo e la donna, Dio si riposò. E guardando quei due si capisce anche perché. Erano un cosmo abitato da due pianeti in continua rotazione lungo un’orbita di rincorse, ammiccamenti e dispetti.
Rosa non capiva la disposizione di quei resti sulla tovaglia mentre il canto di un passerotto scandiva l’una e ricordava a Dante il poco tempo per sciogliere gli ultimi dubbi di formazione.
Sul bordo del tavolo un tappo in sughero puntinato era in procinto di rotolare giù. Aveva un taglio inciso apposta per permettergli di rientrare magicamente nel collo della bottiglia di nebbiolo. Davanti al tappo uno stuzzicadenti piegato ben oltre la metà, come un giovane che mal convive con la sua altezza e s’ingobbisce verso l’asfalto.
“Sempre uno a guardare le spalle dell’altro e mai troppo distanti” – raccomandava Dante alla mollica di pane cicciotta, posandola a fianco dello stuzzicadenti. Sulla destra un tappo di alluminio con una stella rossa su sfondo argento e a sinistra una molletta di legno.
Davanti a questa linea Dante, con la stessa cautela con cui uno scacchista avanza la regina, disponeva a destra una scatola di fiammiferi, anche se non fumava più. Non ne accendeva uno da quella volta in cui il cuore fece un brutto scherzo e il dottore gli consigliò di dare un taglio a sigarette e stress. Sostituì le prime con bastoncini di liquirizia che spolpava come un randagio fa con l’osso. Ma la tensione della partita era necessità, non un vizio.
Ogni domenica ne spezzava uno e disponeva la metà con la capocchia rossa al centro del tavolo, leggermente avanzata rispetto all’altra.
L’ultimo della seconda fila era un lembo di carta strappato dal tovagliolo.
Infine, un po’ staccati dagli altri, due pezzi di grissino, uno lungo il doppio dell’altro. “Tu sta su spilungone, di testa devono essere tutte tue. E tu piccolo giragli attorno e vai sulle seconde palle”.
Rosa asciugava le stoviglie finché non brillavano come a un banchetto nuziale ma non poteva liberare la tavola finché Dante non li aveva messi tutti in campo.
“La mia camicia a quadretti è stirata?” – chiedeva avvicinando le due metà del fiammifero.
“No Dante”
“E perché? Sai che è quella della domenica! Se non la indosso perdiamo!”
“E allora non dovevi metterla per andare a giocare a bocce con quei perditempo l’altra sera. Anzi, per andare a veder giocare a bocce! E poi mi sembra che domenica scorsa ce l’avessi e abbiate perso!”
“Perché quel cornuto c’ha annullato un gol regolare! E poi oggi non possiamo perdere. Altrimenti retrocediamo. E Dante non è mai retrocesso!”.
Falso. Era retrocesso, una volta. Quando quella ragazza gli chiese: “Mi fai ballare?” e lui, timido, fece un mezzo passo indietro: “Sono rigido come un ramo”.
“Meglio, mi afferrerò quando la corrente vorrà portarmi via”.
Ieri aveva riccioli biondi illuminati a intermittenza dalle luci della balera e oggi non poteva scrollare la tovaglia prima che lui avesse posato la mollica di pane al posto giusto.
In quella casa il settimo giorno scorreva così. Non era quello del riposo, né del Signore. Per quel cosmo era il giorno dei bisticci: “E allora me la stiro da solo, che ci vorrà!”
Delle ripicche: “Tocca quel ferro e scuoto la tovaglia!”
E della riconciliazione: “Quanto avete fatto?”
“Abbiamo perso”
Poi un bacio sulla fronte: “E andiamo a fare due passi che mi devo sfogare”.
E uscivano in paese mano nella mano come quella sera dalla balera.
Rosa scoprì il significato, quello vero, della cura con cui Dante disponeva quei resti sulla tovaglia, anni dopo. Lo capì vedendo un uomo uscire dai banchi della chiesa e chiamare a raccolta i suoi compagni con un semplice sguardo. Aveva lentiggini sul volto come i puntini di un tappo di sughero. Accanto a lui un ragazzo alto e ossuto col viso lungo e le spalle incassate rivolte verso il basso che indossava una giacca di una taglia più grande. Ce n’era un altro dalla carnagione pallida e i capelli rosso fuoco vicino a un giovane secco come il bastoncino di un rabdomante.
Il tappo, lo stuzzicadenti, il fiammifero rotto a metà, i grissini. Si erano fatti carne, pronti a spezzare per l’ultima volta il pane con quell’uomo saggio che chiamavano Maestro.
Quello che era retrocesso una volta sola e ogni domenica per novanta minuti li salvava dalle meschinità della settimana.
Lo portarono in spalla come quel pomeriggio in cui festeggiarono la salvezza raggiunta all’ultima giornata. E non certo grazie a una camicia fortunata.
Lo innalzarono per l’ultima volta, portando sul sagrato il settimo giorno.
Quello che Rosa non avrebbe più vissuto.