Lungi da me dare lezioni di matematica, al Liceo non flirtavo coi teoremi, e lungi da me dare lezioni di calcio, altrimenti ne avrei fatto un mestiere, però sull’Inter mi sento preparato.
Ipotesi: Roberto Mancini la gavetta da allenatore non l’ha fatta.
Tesi (mia): è sopravvalutato.
Dimostrazione: concedetemi cinque minuti.
La prima volta in cui ho pensato che non fosse un grande allenatore fu l’11 marzo 2008. Dal solito seggiolino numero 44 fila 3 settore 314 del terzo anello rosso aspetto di assistere a una missione difficult ma non impossibile: c’è da ribaltare un 2-0 dell’andata ai Reds di Rafa Benitez, frutto della solita immaturità europea e di un’espulsione ingiusta a Materazzi. Partiamo bene con Cruz e Ibra che sfiorano il vantaggio, poi a Burdisso si tappa la vena e, già ammonito, entra male su Lucas: espulsione sacrosanta.
E’ finita – penso, invece c’è ancora il tempo per un gol sprecato da Ibrahimovic prima che il Niño Torres apra la doccia gelata: controllo e torsione fulminea. Gioco partita e incontro. Per la prima volta le mie orecchie sentono cantare dal vivo You’ll never walk alone dai ragazzi della Kop: spettacolo vero.
Tornando a casa penso che l’anno prima siamo usciti agli ottavi dopo una maxirissa al Mestalla, anche se la miccia non l’avevamo accesa noi: 2-2 a Milano e un misero 0-0 a Valencia. Pazienza.
L’anno ancora prima? Fuori ai quarti contro l’outsider Villareal: 2-1 a Milano e sconfitta per 1-0 in Spagna. Riavvolgo il nastro e rivedo la pioggia di fumogeni su Dida: 2-0 all’andata e 3-0 a tavolino al ritorno. Non male.
Ho imboccato l’autostrada già da un pezzo quando penso che in bacheca il Mancio ha messo due Coppe Italia, due Supercoppe e il chiacchieratissimo Scudetto post-calciopoli ma superate le Alpi forse non ha tutta questa personalità: in 12 partite da dentro o fuori ne ha vinte solo 3.
La mattina dopo leggendo la dichiarazione a caldo per poco non mi rovescio il caffè addosso: “Sono gli ultimi due mesi e mezzo per me sulla panchina dell’Inter”. Tempismo perfetto. Sono tredici parole che confermano la mia tesi: nei momenti chiave il Mancio non regge la pressione.
La mia mente infatti torna all’aprile 2007 quando l’Inter riceve i giallorossi con 16 punti di vantaggio a sette giornate dalla fine ma perde 3-1 sprecando un match point in assoluta tranquillità. Lo scudetto arriva lo stesso ma quello è un chiaro segno di debolezza.
Ha tutte le energie per fare il double ma nella finale d’andata in Coppa Italia prende sei scoppole dalla Roma. C’è da capirlo, lo scudetto mancava da troppi anni, non avranno ancora smaltito la sbornia. E’ una battuta ma intanto l’alibi nasconde un’altra debolezza.
Dopo quella brillante sparata l’ambiente è destabilizzato, il ginocchio di Ibra scricchiola e il vantaggio chilometrico nei confronti della Roma si assottiglia.
Domenica 4 maggio 2008 l’occasione è di quelle che capitano una sola volta nella vita: vincere il derby significa sbattere in faccia al Milan il 16° scudetto. Stavolta sono con mio padre al secondo anello arancio di fianco alla curva nerazzurra. Ricordo chiaramente la coreografia: “Puoi dire quello che ti pare ma il tuo incubo si sta per avverare”.
Invece no. Il tridente non ci appartiene e Mancini sceglie Cruz e Crespo lasciando in panchina un ragazzone della primavera col 45 che sembra trasformi in oro tutto quello che tocca. Il nostro tango è fuori tempo e a inizio ripresa Inzaghi e Kakà spengono i sogni di gloria. L’ingresso di Balotelli è tardivo, il gol del Jardinero ancora di più.
Ancora una volta il braccio del Mancio sbaglia lo smash. Poco male – penso – la prossima è in casa contro un Siena che non ha niente da chiedere al campionato. Finisce 2-2 e mi ritrovo nel parcheggio a vagare come uno zombie mentre la curva riavvolge le coreografie. Sembrano i titoli di coda di un film triste di cui sono il protagonista. Il vento spazza via le mie certezze e i volantini col numero 16.
Passo una settimana d’inferno, la prossima è in casa del Parma che si gioca la salvezza. Scende un diluvio universale mentre la Roma sta vincendo a Catania. A mezz’ora dalla fine lo scudetto sta scomparendo come le mani di Marty McFly al gran ballo di Ritorno al Futuro.
Ho lo stomaco chiuso come il privé del Billionaire quando si alza dalla panchina uno svedese che non mi ha mai scaldato il cuore ma che è maledettamente decisivo nelle corse a tappe. Ibra scuote la rete due volte, io tiro un sospiro di sollievo ma Mancini di più. Forse si rilassa troppo e una settimana dopo perde ancora la finale di Coppa Italia contro la Roma.
A dicembre del 2009 vola a Manchester sponda City, il giocattolino di un emirato pronto a spendere cifre immorali pur di vincere. Riceve il testimone da Mark Huges, lotta per l’ultimo posto Champions disponibile ma perde lo scontro diretto contro il Tottenham. Un’altra volta il braccino? Vabbè ma in fondo la squadra non l’ha fatta lui, ha riportato l’Inter a grandi livelli. E’ un mantra che ripetono tutti, soprattutto i suoi ex tifosi.
In estate chiede e ottiene il ragazzone col 45, che all’Inter ha litigato con tutti, David Silva e Yaya Touré, a fine stagione chiude al terzo posto e vince la FA Cup interrompendo un digiuno lungo 35 anni. Visto? E’ un vincente.
Nel 2012 vince la Premier alla fine di un duello pazzesco con lo United. Ma il punto è un altro: come la vince? Per differenza reti all’ultimo secondo.
Riassunto indispensabile di quei novanta minuti.
Il titolo si decide su tre campi contemporaneamente: lo United gioca a Sunderland mentre il City ospita il QPR seduto in riva al fosso della retrocessione con due punti più del Bolton impegnato a Stoke.
Il primo a segnare è lo Stoke, il QPR quindi può anche perdere contro il City. Intanto Rooney porta in vantaggio i Red Devils e in questo momento il titolo è nelle mani dello United.
I ragazzi del Mancio attaccano a testa bassa e segnano con Zabaleta mentre il Bolton ribalta il risultato; all’intervallo il City è campione d’Inghilterra, il QPR retrocesso e il Bolton salvo.
A inizio ripresa Cisse pareggia per il QPR e cala il gelo all’Etihad Stadium. Ancora una volta il braccio del Mancio trema. Lo United sembra più attento al risultato dei Citizens e prende a pallonate il Sunderland ma spreca più volte il raddoppio.
Intanto il QPR rimane in dieci ma incredibilmente trova il vantaggio con Mackie. E’ un incubo, il Mancio sta rischiando di nuovo mentre lo Stoke pareggia su rigore al 75°. Stoke-Bolton sono sul 2-2 e quindi il QPR potrebbe anche perdere ma meglio non fidarsi e barricarsi in difesa.
Mancini butta dentro Dzeko per Barry e Balotelli per uno spento Tevez. Passano i minuti ma il gol non arriva; il colpo di testa di super Mario trova il miracolo del portiere.
A Sunderland è finita e lo United aspetta solo il triplice fischio all’Etihad per festeggiare.
Stoke City-Bolton finisce 2-2 e a questo punto il QPR anche perdendo sarebbe salvo. Al secondo minuto di recupero su calcio d’angolo Kenny non esce e le belle statuine del QPR lasciano Dzeko da solo nell’area piccola: 2-2. Non basta, serve un altro gol a 150 secondi dalla fine.
Al 93° il QPR butta via una rimessa nella metà campo avversaria e innesca l’ultimo contropiede del City. Aguero porta palla centralmente, uno-due con Balotelli e collo destro che vale il titolo.
Sulla panchina del QPR siede Mark Huges, guarda caso il predecessore di Mancini sulla panchina del City. Aiutino alla sua ex squadra una volta ottenuta la salvezza matematica del QPR? Non scherziamo, queste cose in Inghilterra non si fanno e poi come avrebbero fatto a informare i giocatori in campo? Sono solo coincidenze e fa niente se l’anno dopo il Mancio perda la finale di FA Cup contro il Wigan già retrocesso perché ha riportato a casa un titolo che mancava da 44 anni.
E quel discorso sulla timidezza oltre le Alpi? La musica non cambia e, passatemi la citazione New Wave, il suo Manchester è un Madchester. Al primo tentativo non supera il primo turno. Sì ma è nel girone della morte con Napoli e Bayern Monaco, si dirà.
Al secondo giro chiude il girone tristemente quarto con soli tre punti e zero vittorie. Sì ma c’erano Real Madrid e Borussia Dortmund, si dirà. Un altro alibi. C’è sempre un alibi a difenderlo.
Il Mancio è un vincente. Punto e basta. Ha vinto all’Inter e ha vinto al City e devo smetterla con tutta questa filippica.
Eppure non ce la faccio a non chiedermi quanto abbia perso e soprattutto come abbia vinto.
Gli voglio un gran bene, sia chiaro, ma mentre il popolo interista accoglieva il suo ritorno con un enorme sospiro di sollievo io ero scettico perché i successi non sono tutti uguali e in questo senso il Mancio mi sembra che abbia vinto quando non poteva perdere.