Sedeva sul balcone con le gambe distese. Unì le mani umide di sudore e portò gli indici alla punta del naso. Decise che c’era il tempo per l’ultima sigaretta. Nuvole scure s’arricciavano svelte come fumo d’una ciminiera. Ivan sfregò il fiammifero sul mattone, lasciando una striscia che sua moglie non avrebbe gradito. Il problema per lei non era il fumo ma le domeniche spese con le figlie, da sola, mentre il marito s’illudeva di fermare il tempo rincorrendo un pallone. Ivan protesse la fiamma col dorso della mano e accese la sigaretta. Ripensò a quella promessa fatta una volta per tutte: se anche la quarta figlia fosse nata femmina avrebbe smesso col calcio. Il tempo di sprofondare i tacchetti nel fango stava scadendo. Sacrificio enorme per Ivan, ultimo erede di una generazione di giostrai del Dunánútl, all’estremo ovest dell’Ungheria. Rinuncia dolorosa per una nomade che aveva messo le radici negli spogliatoi profumati d’olio canforato, nella terra insinuata tra le fughe di piastrelle sbeccate. Niente aveva il sapore di casa quanto un campo da calcio per lui, allevato in fretta a curare i fratelli e a stracciare biglietti al Luna Park.
Finché era arrivato il giorno in cui Ivan aveva deciso di piantare qualche radice. Il giorno in cui aveva deciso di sposarsi e comprare la villetta dove ogni sera fumava l’ultima sigaretta. Il giorno in cui aveva deciso di campare tutto l’inverno grazie a un Bruco Mela a due euro e cinquanta al giro sul lungomare di Borgio Verezzi. Il giorno in cui aveva deciso di barattare quel Bruco Mela con uno più piccolo, un gonfiabile e un tappeto elastico e girare solo per le feste della provincia. Il giorno in cui aveva deciso di regalarsi una Mercedes lunga come un battello, di pagare tutto in contanti e comprare divise nuove nelle squadre in cui andasse. Di smettere col calcio però non l’aveva ancora deciso.
Aspirava con gusto. Tirate profonde, boccate ampie. Accarezzandosi il bicipite ricordava quanto fossero dolorose da piccolo le partenze. Quanto avrebbe preferito una casa senza ruote. Quanta fatica costasse un Arrivederci. Quanta speranza ci fosse dentro a un Buongiorno. Da bambino aveva sognato di vestire la stessa maglia dall’estate alla primavera. Ma un campionato intero Ivan non aveva mai potuto giocarlo. Troppe città da raggiungere, troppi bambini da far sognare in quel mondo sempre meno fantastico. Così si era accontentato di qualche allenamento nella squadra del paese in cui si fermavano per un po’. E non importa se lo avevano soprannominato Zingaro.
Era a metà dell’ultima sigaretta. Ivan guardò Emma dormire nella stessa culla che aveva ospitato i sogni delle due sorelle, ammesso che i sogni abbiano una dimora. Il temporale batteva le nocche al cielo. Ivan ripensò a pochi mesi prima, quando accarezzando la pancia di sua moglie aveva sentito per la prima volta Emma muoversi. Adesso sperava che una nuova vita animasse la casa, un maschietto al quale insegnare a calciare. Lui che di maestri non ne aveva mai avuti. A parte Vlady l’ucraino e il suo tiro al bersaglio. Ogni buco era un premio e ogni premio una sfida. Finita la giornata Ivan si offriva di pulire la giostra mentre i genitori preparavano la cena e i fratelli apparecchiavano la roulotte. Con un colpo di straccio lavava i seggiolini e poi correva da Vlady per provare qualche tiro. I buchi più grandi non li mirava nemmeno più. Li avrebbe centrati anche con la febbre. Aveva deciso che non sarebbe diventato un calciatore finché non avesse infilato il pallone nel buco più piccolo, quello all’incrocio dei pali disegnato per spillare soldi senza possibilità di successo.
La sera in cui era diventato un giocatore c’era un’unghia di luna e odore di erba secca. La ricordava bene Ivan quella sera, nonostante avesse attraversato più città che stagioni.
“Vlady faccio due tiri e vado a mangiare” – gli aveva detto posizionando il pallone sulla linea. Si era passato la lingua sulle labbra, da destra a sinistra, da sinistra a destra.
Vlady aveva acceso un lanternino mentre contava l’incasso. La luce era fioca. Ivan aveva preso i soliti tre passi di rincorsa, poi aveva sentito il pallone avvolgergli morbido il collo del piede e staccarsi da terra con amore gratuito. Quel dolce rumore aveva suggerito a Vlady che qualcosa stava cambiando per sempre. Aveva smesso di sfogliare le banconote l’ucraino, si era voltato verso il tabellone e aveva visto il pallone prendere una rotta inesplorata. Il silenzio accompagnava la sera.
“Adesso sei un giocatore Ivan. Nessuno ce l’aveva mai fatta. Che premio vuoi?”.
“Gloria Vlady!”
“Ce l’hai già!” – aveva risposto prontamente l’ucraino. Per quella prodezza Ivan godeva già di tutta la sua stima.
Ivan aveva sorriso. Non era quella la gloria di cui parlava.
“Non lo diremo a nessuno. Se lo scopre tuo padre mi ammazza”.
Il padre infatti non voleva che Ivan si distraesse dal lavoro. Lo accompagnava volentieri ad allenarsi ma al Luna Park era vietato il pallone. Ci pensava Igor il gobbo, che di figli non ne aveva mai avuti, a viziare Ivan come un nipote. Igor il gobbo era il più anziano del carrozzone, spingeva il carrello dello zucchero filato e teneva sempre nascosto un pallone gonfio tra i barattoli di caramelle.
“Mio fratello mi ha dato il cambio in biglietteria” – sussurrava Ivan con la mano davanti alla bocca. E Igor gli passava la palla, stando attento che suo padre non se ne accorgesse.
La sera in cui era diventato un giocatore, calciando quel tiro impossibile sotto lo sguardo di Vlady l’ucraino, Ivan aveva cenato in fretta e steso sul letto della roulotte continuava a pensare a quella bambina impertinente gli aveva riempito il pomeriggio di domande. Era una biondina con la coda di lato che aveva assecondato ogni desiderio del fratellino, fino al Bruco Mela di Ivan col codino da acchiappare.
“Tu non puoi salire, sei troppo grande” – aveva tremato timida la voce di Ivan.
La bambina aveva scoperto le labbra blu per il freddo dal bavero della giacca: “Ho solo accompagnato mio fratello. Mi metto lì e lo guardo”.
Finito l’ultimo giro Igor il gobbo aveva chiamato Ivan: “Secondo me la biondina ne vuole un po’. Offro io” – e gli aveva allungato uno zucchero filato lungo come il suo braccio. Ivan e la bambina sedevano a cavalcioni sul muretto. Lo sguardo giocava a nascondino e la nuvola rosa zuccherava la bocca.
“Chissà che bello vivere qui!” – aveva detto la bambina.
“Insomma”
“Perché?”
“Non è bello come sembra”
“Perché? Puoi andare sulle giostre tutte le volte che vuoi!”.
La bambina pensava non ci fosse spazio per la tristezza in quel mondo. Un mondo in cui entrare nella casa degli specchi per fare i conti con sé stessi o salire sulla ruota panoramica per guardare tutto dall’alto. Un mondo in cui visitare il castello dei vampiri per provare un brivido o assaggiare tutte le delizie di Igor per farsi venire il mal di pancia e saltare la scuola.
“Da grande anche tu vuoi fare il giostraio?”
Era la domanda che gli facevano tutti. A scuola, al campetto, sempre la stessa domanda. Come se nascere figlio d’un giostraio fosse il presagio d’un destino.
“No. Da grande farò il calciatore”
“E se non diventerai calciatore terrai una giostra come tuo padre?”
“No. Farò l’allenatore”
Da quel pomeriggio Ivan e la bambina avevano cominciato a vivere d’attese. Ad aspettare l’inverno per addolcirlo con lo zucchero filato. Erano passati tanti anni da quel loro primo incontro. Aveva fumato tante ultime sigarette.
Dell’ultima sigaretta di quella sera non era rimasto che il filtro. Dal balcone Ivan vide arrivare le figlie coi baffi di gelato. Dietro di loro Gloria, sua moglie. Entrando in casa lo avrebbe baciato e gli avrebbe chiesto quante ne aveva fumate. Aveva un olfatto da segugio e non aveva smesso di fare domande impertinenti. E nemmeno di tenere la coda di lato.
Ivan alzò il braccio per salutarle. La manica della maglietta scoprì il tatuaggio di Igor il gobbo, ritratto in una corona di caramelle con la barba grigia raccolta in una treccia. Sorrise. Era quella la Gloria di cui parlava.