Partiamo da lontano. A 14 anni io e Lorenzo ci trovavamo in oratorio a tirare calci di punizione, col pallone in un braccio e il sole nell’altro. Lui, centrocampista metodico in fissa per Davids, provava a far girare la palla con l’interno. Io, ala mancina, ero un adepto delle tre dita di Roberto Carlos.
Veniamo a oggi. L’altro giorno sul palco di Montecarlo, allestito per i sorteggi di Champions, è salito un uomo disordinato, con la barba lunga, una camicia di lino stropicciata e un basco da giocatore di bocce; uno di quelli che in Corsica prenderebbe il boccino lanciando dalla veranda del ristorante.
Cosa c’entra, vi chiederete. Torniamo di nuovo indietro.
Quando citofonavo a Lorenzo scendeva con la maglia del Manchester United, che più che una maglia era un quadro, in cui c’era ritratto l’Old Trafford e quell’uomo sul palco, con gli occhiali appesi alla camicia e l’aria di chi preferirebbe pitturare la staccionata del giardino, è proprio l’attaccante di quella squadra: Éric Cantona.
Per alcuni un Ibrahimovic al cubo, un francese spaccone e violento. Per me è tutto ciò che varrà la pena raccontare di calcio a mio figlio, appena capirà qualcosa. È la sregolatezza pura che non ha anche fare col genio e la ragione sta tutta nella supercazzola di un minuto che tiene su quel palco, davanti alla creme del mondo pallonaro.
Alla domanda del presentatore, che gli consegna un premio alla carriera, “Cosa ti passa nella mente in questo momento?”, lui risponde così:
“Siamo come mosche per i cattivi ragazzi e per gli dei. Ci uccidono per sport. Presto la scienza sarà in grado di rallentare l’invecchiamento delle cellule e di ripararle e così diventeremo eterni. Solo gli incidenti, i crimini e le guerre ci uccideranno ancora. E sfortunatamente i crimini e le guerre si moltiplicheranno. Amo il calcio. Grazie”
What else? Direbbe George Clooney o Sticazzi la Sora Lella. La sostanza è che questa collana di parole no sense è in realtà un centrifugato di letteratura, provocazione, ironia.
La letteratura di Shakespeare quando cita Re Lear: “Noi siamo per gli dèi quello che son le mosche pe i monelli: ci spiaccicano per divertimento”. La provocazione nel riferirsi alla ricerca di cellule immortali (con Cristiano Ronaldo in prima fila, uno che si sottopone a crioterapia) quando nel mondo dilaga povertà. L’ironia di dirlo davanti una platea inebetita come la mia faccia di fronte alle ossido riduzioni (vedi Messi) ai tempi in cui provavo a calciare le punizioni d’esterno.
Certo a mio figlio dirò anche che Cantona travolse con un calcio volante un tifoso che lo insultava e questo proprio non si fa. Ma gli dirò che si è scoperto che quel tifoso era un razzista che aveva rapinato una pompa di benzina picchiando un cingalese e che suo nonno (cioè mio padre) dice sempre che la violenza è sbagliata ma alcune persone purtroppo conoscono solo il linguaggio delle mani.
Cantona ha più di cinquant’anni e la stessa sfrontatezza di quando giocava col colletto alzato, come un bullo di periferia al circolo di tennis. Ha lo sguardo fintamente perso su quel palco ma vede le balle di fieno rotolare nelle menti del pubblico e dopo un minuto di malcelata follia ringrazia col tono iconico di quel Au revoir nello spot della Nike.
Sì, è vero, ha prestato il fianco a qualsiasi sponsorizzazione e ha invitato i risparmiatori francesi a prelevare i loro soldi per far crollare il sistema bancario. Perché è un adorabile sfacciato, un personaggio ammaliante, più grande di qualsiasi copione e in antitesi con la banalità. Dopo quel famoso calcio al tifoso-razzista, alla prima intervista davanti ai microfoni di giornalisti assetati, disse: “Quando i gabbiani seguono il peschereccio è perché sanno che in mare verranno gettate le sardine”. Una metafora che a molti giocatori odierni richiederebbe mezza giornata per capirla. Salvo poi tatuarsela sull’avanbraccio.
Parole di uno che sul suo profilo Instagram è apparso con una scodella di spaghetti rovesciata in testa per sfottere la permanente ossigenata di Neymar. Cantona, oggi, è in un certo senso lo stesso esule da qualsiasi definizione che a ventuno anni, dopo il suo esordio in Nazionale, dichiarò che il calcio contava troppo poco nella sua vita perché lo prostituisse e che quando la Nazionale l’ha scaricato offese il ct senza mezzi termini: “Ho letto che Mickey Rourke, uno che mi piace molto, dice che a occuparsi degli oscar sono dei pezzi di merda. Ecco, credo che Henri Michel non ci vada molto lontano”.
Questo è Cantona, figlio mio. Gli dirò così. Uno in equilibrio fra Santiago di Hemingway e le risse della sua Marsiglia, una città che mi prometto sempre di visitare. Nel caso farò un pellegrinaggio a casa sua, vedi mai che lo trovo a giocare da solo a scacchi come Il Dottor B. di Zweig o a ruttare davanti a una partita o magari ad aspettare qualcuno a cui tirare due schiaffi. A proposito, nel 2011 ha interrotto la sua collaborazione coi Cosmos di New York per una scazzottata.
Cantona è il vicino di casa che taglia il prato alle sette di mattina del sabato ma e ti invita al barbecue domenicale; è il francese che gli inglesi hanno fatto re e a Parigi non amano. Chissà perché? “Cos’è l’identità nazionale? Parlare francese, cantare la Marsigliese, leggere la Lettera di Guy Moquet? Questo è essere stupidi. Per me essere francese significa essere rivoluzionario”. Saranno mica state queste parole?
Dirò a mio figlio che King Éric con la coppola in testa provò a fondare un sindacato di calciatori con Maradona e che in mezzo a selfie geniali posta Megan Rapinoe e Socrates.
È stato il più eclettico attaccante del calcio francese e uno dei più completi di sempre. È un bell’uomo che fa di tutto per imbruttirsi e buca l’obiettivo come trafiggeva i portieri. Uno che gioca a fare l’attore e si è comprato una quantità industriale di legno per costruirsi una casa nel Montiferru sardo. Uno che se si dovesse davvero rifugiare su un’isola per uscire a funghi o a pescare mi mancherà moltissimo. Quasi quanto i tempi in cui giocavo a fare il Roberto Carlos. Perché alla fine Cantona, rimanendo su Shakespeare, è fatto della stessa sostanza dei sogni.
Si ringrazia per le fonti e l’ispirazione, oltre che l’immenso Cantona, il pezzo di Daniele Manusia su l’Ultimo Uomo.