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LO CHIAMAVANO CATENACCIO

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E’ la declinazione cool di Nereo Rocco, la rivisitazione in chiave moderna della ricetta difesa-e-contropiede già elegantemente ribattezzata ripartenza. Niente di nuovo quindi, eppure a qualcuno piace. Anzi, c’è chi si esalta.
Niente di male, attenzione, ma non si scambi il tramonto del guardiolismo puro, in favore della versione 2.0, con l’avvento di una nuova corrente.
E se anche la rivoluzione fosse alla porte non sarebbe certamente il cholismo.

Simeone ha grandi meriti, dalla resurrezione del Niño Torres, irriconoscibile a Milano, all’esplosione di Griezmann, dalla scommessa Saúl alla maturazione di Koke, ma da qui a decantarne il bouquet ne passa. E’ come gustarsi un calice di Malbec, il vino argentino più esportato oggi, dimenticando che il vitigno l’ha introdotto un agronomo francese. El Cholo, soprannome atzeco che significa appunto “incrocio di razze”, ha tagliato le uve migliori dei paesi in cui è passato, ha disegnato una bella etichetta e ha messo in tavola la bottiglia spacciandola per nuova: un vino nero e lucente come il suo abito, capace di inserirsi nei variegati riflessi di Barcellona e Real Madrid e di vincere una Liga due stagioni fa.
La stima nei suoi confronti, soprattutto da parte dei detrattori del tiki taka, nasce dall’aver trovato il modo di vincere l’egemonia delle super potenze spagnole. Poi sarà la faccia da hidalgo che sprona alla battaglia, mentre a noi vien da guardare i nostri allenatori come abat-jour a un mercatino vintage, sarà lo stile total black alla Giorgio Armani e la barba dei tre giorni, saranno quei capelli ingellati come Ritchie Valens de “La bamba”, sarà che a bordo campo disegna traiettorie con il destro come se stesse ancora giocando, sarà che vive due partite: una coi giocatori e una col pubblico, che infiamma sbracciandosi come un ultras. Perché diciamocelo, il Vicente Calderón è sempre stato un inferno, ma con lui di più perché alla garra sudamericana aggiunge in trincea una dose di malizia tale da farsi odiare: ritarda una rimessa laterale, esce dall’area tecnica ingaggiando un duello col quarto uomo, sfida vis-à-vis i giocatori avversari.

Non c’è sistema di gioco che non possa essere neutralizzato, prima o poi, e non esiste un solo modo di vincere. Lui ha trovato il suo, ma passare per rivoluzionario no! Nonostante l’ironica vignetta che lo ritrae nei panni del Che, convinto a rovesciare il regime del tiki taka. Anzi, dovremmo essere eternamente grati a Pep per questi (quasi) dieci anni, per aver trasformato in realtà un progetto rimasto a lungo solo su carta. Il tiki taka è destinato a esaurirsi, come qualsiasi moda, ed è destinato a tornare, come qualsiasi moda, anche se nessuno lo riporterà in voga col suo stile; in fondo ci siamo rimessi il giubbotto di pelle anche senza trovare un altro James Dean. Per chi inventa una corrente c’è l’immortalità calcistica e lui, a 45 anni e una carriera ancora in gran parte da scrivere, la merita. Al di là dei successi.

Per lungo tempo è stato imbattibile, frutto della compresenza dei migliori interpreti del mondo, mentre al Bayer ha programmato l’aggiornamento usando strumenti nuovi e rispettando costumi teutonici come la presenza di un vero centravanti, leggasi Lewandowski. Ha ringraziato tutti prima di uscire e anche se non ha vinto la Champions la porta che ha chiuso dietro di sé la guardano già con un pizzico di nostalgia perché a Monaco sanno che vinceranno ancora. Ma non così.
Adesso lo aspetta l’avventura inglese al City, squadra a cui si è promesso già a febbraio, seguendo la tendenza tipica nel mondo dei motori di svelare il proprio futuro a stagione in corso. Sono i tempi moderni Signori, rassegniamoci al fatto che Conte tra un allenamento e l’altro della Nazionale possa pensare al mercato del Chelsea.

Guardiola ha ripreso i canoni tipici della bellezza del calcio come Canova diede vita a una plasticità nuova recuperando l’antica arte greca. Spingendo all’estremo qualità, grazia e semplicità si pone come il più importante esponente del neoclassicismo calcistico. Ha esaltato il non possesso quanto il palleggio, ha fuso in un’opera sola pressing alto, fraseggio sotto il ginocchio, recupero istantaneo della palla e il disegno di triangoli in ogni zona del campo per dare a ogni giocatore almeno due possibilità di passaggio. Ha scelto i migliori aiutanti in bottega ma non gli si può togliere il merito di essere stato prima un sognatore e poi un innovatore.

Possiamo discutere sul fatto che il tiki taka abbia fatto male laddove un allenatore di Seconda Categoria provi a imitarlo con chi un’ora prima ha chiuso l’officina o sia sceso da un furgone, ma il buon senso non si apprende con un patentino.

Simeone ha fatto leva sulle doti che metteva in campo, quelle che lo fanno amare da tutti i suoi ex tifosi, sul grande cuore, lo stesso che trasmette ai suoi dalla panchina, però perché considerarlo lo sherpa che ci porterà su vette inesplorate quando ha dichiarato che la sua esperienza più formativa è stata a Catania? E dove, se non in Italia, poteva affinare il tatticismo, l’attenzione nei dettagli, la perfezione nel difendere?
Inghilterra e Russia pensarono a Capello per alzare l’asticella delle nazionali, il Real ha voluto Ancelotti per conquistare la decima, in Cina hanno chiamato Lippi per far crescere il movimento. Senza contare l’irripetibile miracolo di Ranieri. A noi italiani piace veder l’erba del vicino sempre più verde ma spesso ci dimentichiamo che i migliori giardinieri sono i nostri.
Simeone in Italia ha imparato tanto, dal fatto che non si evita una retrocessione spargendo sale sul campo al fatto che uno Scudetto alla Lazio vale più di una Coppa Uefa all’Inter. E’ rimasto nel cuore dei tifosi nerazzurri nonostante 14 anni fa esatti li spezzò il cuore. Tra poco tornerà a San Siro per vendicare una Champions sfuggitagli di mano all’ultimo secondo e qualcosa mi fa pensare che stavolta non sbaglierà.

I pronostici sono a favore dei cugini ricchi del Real ma a Milano, capitale della moda, per la prima volta sulla passerella dei campioni d’Europa potrebbero sfilare i colchoneros, quelli che ricavarono la divisa dalla foggia bianca e rossa dei materassi.

L’eleganza non è farsi notare, ma farsi ricordare
(Giorgio Armani)




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