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L’ORA D’ARIA

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Mi avevano parlato delle ridotte dimensioni del campo e in effetti è troppo piccolo per essere regolamentare, mi aspetto una partita a flipper, ma in questo campionato si possono fare delle eccezioni. Soprattutto per questa squadra. Superato l’angolo mi sorprende una scena vista mille volte nei film ma che dal vivo mi tira un pugno alla bocca dello stomaco: i nostri avversari hanno cominciato il riscaldamento mentre nei cortili, divisi da altissime mura, i carcerati camminano avanti e indietro. Probabilmente è l’unica attività fisica della giornata. Altri, non meritevoli di questo premio, si affacciano alle grate esagonali delle celle. Dalla parte opposta la sentinella passeggia sulla cima del muro per assistere a uno spettacolo diverso dalle solite risaie.

Il mister appena entra nello spogliatoio la prima cosa che fa è accendersi una sigaretta. Non ce la fa ad aspettare di posare la borsa. Brucia il primo tiro a fianco a me, quanto basta per appiccicarmi addosso l’odore di fumo, e poi esce. Oggi non c’è.
Dario negli ultimi tempi ha superato il quintale e i quarant’anni, il suo impegno ormai è più fuori che dentro al campo, come quando ha cucinato la paella per il suo compleanno. Stavolta siamo rimaneggiati ed è venuto con la scarpe da gioco. In questa squadra il Presidente non gioca per un capriccio, c’è realmente bisogno di lui tra i pali ma oggi farà il terzino perché in porta c’è Spillo mentre Majcon, 52 anni e una vena da poeta metropolitano, giocherà dall’inizio. La Fornero gliel’ha messo in quel posto ma riesce a non pensarci almeno per lo spazio di una cena.
Finito l’allenamento cementiamo il gruppo in una casetta dietro al campo, da quando sono arrivato non abbiamo ancora vinto però ho mangiato cassoeula, paniscia, costine e trippa. Forse è per questo che non abbiamo ancora vinto.

L’attaccante avversario con un accento dell’est mi racconta del suo ultimo gol contro gli immigrati. In questo campionato c’è anche una squadra di gente che ha vinto il mare.
Nessuna minaccia di vendetta per un’entrataccia, nessuna regolazione di conti una volta usciti di galera, è in assoluto la squadra più disciplinata contro cui abbia mai giocato. Certo per loro accendere una rissa non avrebbe la stessa risonanza che per qualsiasi altro dilettante; far parte della squadra è un premio e si comportano di conseguenza.

Sul nostro tavolo difficilmente trovi acqua; puoi stapparti una birra dal frigo o versarti un bicchiere di rosso dal bottiglione di due litri di barbera. Sì, forse è per questo che non abbiamo ancora vinto.
Oscar sulla tuta si è fatto scrivere Bum Bum, non è astemio ma dopo l’allenamento preferisce bere gazzosa mentre Mosche, insuperabile quand’è in giornata, è l’unico che pasteggia ad acqua.
A tavola si fuma, per la gioia di mia moglie quando torno sotto le coperte, e la mattina mi tocca rifare la doccia.
“Sergione ti dà fastidio?”
“Ma che scherzi Marietto?!”
Sono l’ultimo arrivato, non è il caso di fare il difficile. Ho una piccola lesione muscolare e nelle ultime partite ho chiesto di non giocare terzino ma al fianco di Mario, centrale esperto e roccioso.
Ognuno può portare quello che vuole da bere, anzi è cosa buona e giusta condividere coi compagni.

Se non fosse per il divertimento saremmo una squadra da incubo.

A volte dopo l’allenamento qualcuno ha sparato un petardo in mezzo al campo, una di quelle bombe che si accendono a Napoli a capodanno. Così, giusto per alzare il livello di ignoranza.
Ho lasciato i campionati di categoria qualche mese fa e adesso mi ritrovo ai margini di quello che ho sempre considerato calcio. Anzi sono ben oltre. E non me ne pento.
Ai fornelli ci sono il Simo, che a fine serata raccoglie i soldi per la spesa, e il Giso, macellaio e fan di Vasco che una sera ha fritto 24 uova a mezzanotte.

Questa è la Pro Calcio Torrion Quartara 1990, la mia squadra.

Di solito arriviamo al campo scaglionati, tra una battuta e l’altra ci cambiamo. Che gol ha fatto Higuain?! La Juve è due spanne sopra tutti. Contro chi giochiamo oggi? Facciamo riscaldamento tutti insieme e durante lo stretching il Cannino dà la formazione.
Oggi siamo in trasferta, c’è un’aria strana ma non per il vento o il cielo grigio. Il cap, che ha alzato bandiera bianca per un altro infortunio al ginocchio, raccoglie i documenti. Aspettiamo in cerchio fuori dal cancello un cenno per entrare ed ecco che per la prima volta varco la soglia di un carcere. Per la prima volta i miei avversari saranno dei detenuti. Ripenso che tutto questo è possibile grazie ad Alessandro Aleotti che con il suo Brera si è reso protagonista di iniziative apparentemente folli come iscrivere la squadra del carcere di Opera al campionato di Terza Categoria.

La facciata dell’edificio mi ricorda una scuola, entriamo in fila, una rampa in salita, una rampa in discesa ed eccoci negli spogliatoi della palestra dei poliziotti. Mi spalmo della crema scalda-muscoli prima del solito rito: cavigliera, strap! il primo velcro, strap! il secondo velcro, slip da bagno al posto delle mutande, parastinchi, maglia termica, divisa granata, numero 3. In una valigetta ritiriamo chiavi, portafogli, catenine e fedi nuziali. Nello spogliatoio torneremo solo alla fine. Oggi non c’è grossa libertà di movimento e il telefono l’abbiamo lasciato fuori.

Camminiamo in gruppo verso un altro cortile. Il tempo delle battute è finito anche per una squadra di scoppiati come noi. Aspettiamo che una sirena apra il cancello, lo superiamo e aspettiamo che un’altra sirena apra un secondo cancello.
Avanziamo lentamente verso il campo insieme all’arbitro, o meglio un signore sui cinquanta con una divisa fluo. Sono impaziente.
Loro sono in maglia gialla coi calzoncini e i calzettoni blu. Ci salutiamo a distanza, qualche mio compagno distribuisce un give me five a caso. Sono come me li aspettavo: più giovani, più tonici, stranieri, un gruppo di magrebini e slavi in cui un paio di italiani fanno la parte degli stranieri.
Quando iniziamo il riscaldamento i detenuti interrompono la passeggiata e con le mani stringono le inferriate infilando la faccia in mezzo per far sentire il proprio tifo.

Non riesco a non pensare di essere in un carcere.

Corriamo dalla parte opposta ai cortili, dove un tombino giace appena oltre la linea laterale e per la prima volta capisco perché ci chiamano Amatori: solo la passione poteva spingerci fin qui.
La sentinella esce dal gabbiotto e aspetta il calcio d’inizio. I pali dei riflettori sono avvolti da gomma piuma perché troppo vicini al campo.
Ci schieriamo in mezzo alle panchine, due nicchie di mattoni rossi, il campo è così piccolo che non serve correre ma camminiamo lentamente verso il centrocampo e quando mi volto dopo tanto tempo vedo un’immagine rara in qualsiasi campo dalla Prima Categoria in giù: il pubblico. Gli applausi rimbombano fra le mura e in un carcere mi sento di nuovo un giocatore.

La moda del falso nueve è arrivata anche qui, schierano una punta e provano a rendersi pericolosi con gli inserimenti dei centrocampisti come Charlie, o almeno così lo chiamano oltre le sbarre. Lui sorride, ricambia. E’ giovanissimo, penso marocchino, avrà vent’anni e nel secondo tempo dopo uno scontro involontario gli esce sangue dal naso. Non fa una piega e va a sciacquarsi. Se non volete il contatto fisico c’è il tennis! grida un detenuto dalla cella. Parole sante penso.

Il primo tempo fila via senza grosse emozioni. Per la prima volta non sento bestemmie o insulti pesanti da parte del pubblico, forse anche la possibilità di assistere alla partita è legata alla buona condotta; certo Spillo e Raffa diventano subito Sissi e Riccioli d’oro per via delle folte chiome, ma fa parte del gioco e ci ridiamo sù. Io non ho segni distintivi che mi facciano guadagnare qualche soprannome e per il momento non mi sono reso ridicolo con alcun liscio.

All’inizio del secondo tempo il portiere raccoglie ingenuamente un retropassaggio con le mani e da cinque metri il nostro Gazza ha l’opportunità di portarci in vantaggio ma alza troppo la mira.
La leggenda narra che il fattore campo qui conti più del solito e la storia si ripete quando un bel tiro al volo da fuori area si insacca sotto la traversa. L’esultanza è la stessa di qualunque altra squadra: si abbracciano stringendo i pungi davanti ai loro compagni.

Chissà come la starà vedendo dall’alto la sentinella.

Ci ributtiamo in avanti in maniera disordinata perché siamo più forti a tavola che col pallone, ricevo un passaggio da Maurizio, che nella vita è assistente di volo, e appena dopo il cerchio di centrocampo carico il tiro. Sono l’unico mancino della storia del calcio senza la dinamite nel quadricipite ma stavolta il pallone mi avvolge il collo del piede, la schiena è curva verso il terreno e il piede d’appoggio è alla giusta distanza. La palla schizza verso la porta, la seguo con gli occhi sapendo che è potente ma non abbastanza angolata da sorprendere il portiere che infatti sfrutta tutti i suoi centimetri deviando in angolo. Scrosciano applausi per lui e per me, per la parata e per il coraggio nel tentare il tiro. La pelle d’oca mi sale quasi come se avessi segnato mentre arriva da chissà dove un “Bravo 3! Ti devo dire bravo”.

Nel finale Charlie con finta di corpo si gira e mi lascia sul posto. E’ più giovane, più rapido, più tutto. E soprattutto ha più fame, che nel calcio fa tutta la differenza del mondo. Crea superiorità numerica, scarica all’attaccante che intelligentemente con un velo inganna l’intervento di Raffa e libera al tiro il compagno che insacca alle spalle di Spillo. Gioco partita incontro.

L’ingresso di Darione scatena l’ovazione del pubblico. “Ma sei stato dentro anche tu? Ti conoscono tutti” gli chiede un avversario. Sarà la barba da hipster, sarà che ha una faccia che non può starti antipatico ma Dario lo senti vicino anche dietro a quelle sbarre.

Prima del calcio d’angolo non riesco a non chiedermi dove siano i genitori di Charlie e quale reato abbia commesso. Dopo il triplice fischio farò la doccia e dimenticherò la sconfitta con una passeggiata in centro, magari bevendo una birra. Lui tornerà in cella dopo aver conservato l’imbattibilità fra le sue mura, lui che fuori da quelle mura è stato sconfitto.

Ma la partita con la vita non è ancora finita Charlie.

A mensa racconterà la vittoria a chi non l’ha vista, io parlerò di questa esperienza agli amici a cena, lui si addormenterà ripensando alla giocate migliori e io a quella finta con cui mi ha saltato come un pollo.

Senza zuccherati moralismi credo che il calcio abbia il potere di far tornare il sorriso anche a chi ha ben pochi motivi per farlo e rincorrendo un pallone, come la livella di Totò, siamo tutti uguali.
Non so se si possa uscire da un posto del genere senza essere ancora più incattiviti, non so se si possa tornare a una vita normale senza che qualcuno ti abbia mostrato un’altra possibilità. So solo che il triplice fischio ha sancito la fine del momento più bello della loro settimana.

E anche della mia.




One thought on “L’ORA D’ARIA

  1. Sesilia :)

    mi commuovo..e non so se è per l’esperienza in sè o per la tua capacità di dare a questo sport una sensibilità inimmaginata..
    grazie Sergio..buona giornata

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