È una domenica come tante di un campionato come tanti. Ma non per tutti, non per il tipo con la maglia numero nove. È una di quelle giornate così fredde da farti desiderare subito l’estate. La brina spessa come una fetta di pane ormai si è sciolta e ha lasciato spazio alla luce di gennaio e un’aria sporca da troppi giorni senza pioggia. Le sabbie mobili del campo lasceranno in eredità un bel mal di schiena almeno fino a lunedì pomeriggio. Al tipo con la barba folta e la maglia numero nove, invece, il mal di schiena durerà anche di più perché di primavere ne ha trentotto e dalle sabbie mobili dei novanta minuti ci è passato così tante volte da dimenticarsi cosa sia un cammino facile.
È una partita come tante. Anzi no, è uno scontro al vertice, e uno scontro al vertice non è mai una partita come tante. La squadra del numero nove, la Rivorolese, gioca nella latitudine chiamata Promozione (per i non esperti un gradino sopra la Prima Categoria e uno sotto l’Eccellenza). Il numero nove nelle sabbie mobili della Prima Categoria non è mai sceso mentre l’Eccellenza è un posto che conosce bene, molto bene. O meglio, è l’Eccellenza a conoscere bene lui, visti tutti i gol che ha seminato per i campi, come del resto in serie D. Non si è fatto mancare niente il tipo con la maglia numero nove, ha pure assaggiato il professionismo in Italia, Svizzera e Slovacchia. Slovacchia sì, perché di lui si può dire tutto, tranne che sia un tipo banale.
Ma questa non è la crono-storia della sua carriera (quella si trova facilmente su internet), questa è la storia del perché si ostini a dannarsi ancora su questo palco fatto di erba e fatica. Io quel perché non ho mai avuto bisogno di chiederglielo, so benissimo che i suoi occhi furbi e brillanti avrebbero risposto per lui.
Il motivo che lo spinge a giocare ancora è realizzare un sogno. E questa è la storia di quel sogno.
A un certo punto di Rivarolese-Ivrea il numero nove riceve palla dal trequartista, una palla come tante, un passaggio come ne ha ricevuti a centinaia, migliaia. Il numero nove finta di chiudere il triangolo, lascia scorrere la palla e da venticinque metri dalla porta la guarda con lo sguardo di sempre, quello con cui ha visto la prima palla della sua vita gonfiare la rete. E fa la stessa cosa che ha sempre fatto, l’unica cosa che dice di saper fare: lascia partire un missile e segna.
Ma questo non è un gol come tanti. È il gol che si porta dietro una storia di sacrifici e chilometri, di cadute e risalite, di successi e fallimenti. Sulla pellicola di questo tiro c’è impressa una vita. È il gol che segna la tappa di un viaggio lunghissimo e incredibile. La tappa, attenzione, non il traguardo.
Il viaggiatore con la barba da sherpa e la maglia numero nove si chiama Simone Soncini e nel suo zaino adesso ci sono trecento gol.
Se fosse una pianta sarebbe carnivora per la fame di segnare che gli arde come un fuoco nelle viscere.
Se fosse un animale sarebbe un cavallo, di razza pura ovviamente, inadatto ad accoppiarsi con chi non ha lo stesso pelo lucente.
Se fosse un calciatore professionista, attenzione non è un azzardo, per lo stile dentro e fuori dal campo sarebbe Zlatan Ibrahimovic.
E se fosse un film, da stasera, sarebbe 300, come quel numero che ha ossessivamente inseguito a costo di scendere di categoria scrollandosi di dosso le chiacchiere come polvere sulle spalle: troppo vecchio, troppo lento, lingua troppo lunga.
I suoi detrattori diranno che la sua presunzione sconfina nella spacconeria, chi lo sostiene sa che non aveva cassetti abbastanza grossi per contenere un sogno così grande. Simone Soncini, se lo conoscete Soncio, se non lo conoscete Bomber va bene per tutte le stagioni, è l’attaccante che non vorresti mai marcare e il compagno a cui passare la palla quando scotta, quando stai vincendo al novantesimo e devi metterla in banca.
Quando smetterà, un giorno lontano per chi ama il calcio, si dirà che un attaccante così da queste parti non si era mai visto. E forse non si vedrà mai più.
Se fosse un cantate sarebbe Bennato, con la voglia di non invecchiare e il giubbotto di jeans di quando ha iniziato a segnare. E se fosse un suo pezzo, ovviamente, sarebbe L’isola che non c’è. Quell’isola che solo un Peter Pan come lui pensava si potesse raggiungere. Adesso Simone Soncini, una ruga per ogni gol, è sulla spiaggia di quell’isola a sfogliarli uno per uno quei trecento gol, come petali di una margherita. Ha la mano tesa all’orizzonte in cerca dei nemici, quelli che trecento gol non li hanno visti manco in cortile. Ma i nemici non si vedono, è ancora troppo buio.
Questa notte sarà lunga. Ci vuole tempo a ricordare trecento gol.
E sarà dolce.
A voi tutti buona notte. E domani mattina, cercando nel fondo del caffè il gol dei vostri sogni, ricordatevi che quel gol, quello stesso gol, Simone Soncini l’ha già segnato.