Ci avete tolto anche questo, va bene. Ci avete tolto anche la bellezza di veder festeggiare uno scudetto sul campo, magari con un orecchio teso alla radiolina, o meglio uno sguardo all’app, per aspettare il risultato dell’inseguitrice.
Che bello veder festeggiare i giocatori in ritiro eh? O in sala tv, o a pranzo, o mentre si cambiano per fare allenamento, o sul lettino del massaggiatore. Che bello vederli stappare spumante nei corridoi del centro sportivo fuori città!
Una volta c’era la pacifica invasione di campo e il carosello, inteso come il traffico congestionato dalle auto in festa non la trasmissione in bianco e nero. Beh una volta c’erano entrambi ma i tempi cambiano e con essi il calcio, non sarà la mia nostalgia a fermarlo e per quanto sembri il paladino del si stava meglio quando si stava peggio sono meno conservatore di quanto sembri. Però, posso preferire il contemporaneo duello delle squadre coinvolte nella lotta per non retrocedere? Magari con quello specchietto in alto a destra che aggiorna la classifica ad ogni gol. Posso dire che mi mancano i giocatori radunati in cerchio ad aspettare il risultato degli altri campi? O con lo sguardo trepidante rivolto al maxischermo?
E non mi manca perché ero più giovane, spensierato e con la faccia meno sbattuta, mi manca perché preferisco l’abbuffata allo spezzatino, perché alle 19.00 del lunedì non c’è posticipo che possa raddrizzare una giornata storta e non sopporto l’idea che si giochi all’ora di pranzo per ingolosire uno scommettitore asiatico. Lo stesso asiatico che sta elemosinando da altri asiatici un 20% per tirare avanti un’altra stagione. Perché è questa la gente che sta attraendo il nostro calcio. Ma questa è un’altra storia, una triste pagina dei capitali stranieri che in Italia non funzioneranno mai.
Non funzioneranno perché, come disse Sacchi, il calcio è la cosa più importante delle cose meno importanti e agli italiani piace pensare di poter incontrare il presidente al ristorante, come un Alberto Sordi del Borgorosso qualsiasi. Thoir credeva di fare business con l’Inter ma in Italia oggi i soldi col calcio non si fanno. O meglio non si sono mai fatti.
Prima c’era Moratti, non un esperto di calcio ma un miliardario affezionato all’idea di emulare il padre a costo di spendere una finanziaria. Per quanto fosse immorale. L’alba indonesiana della nuova era interista è pallida come il volto di Eric Thoir, magnate già abbondantemente irriso per la somiglianza con Psy di Gam Gam Style, ma qui c’è poco da ridere perché le note che arrivano da San Siro sono tutt’altro che ballerine. Ha creato un sistema di scatole cinesi per coprire i debiti (generati anche dal suo predecessore per carità) ma non le ha chiuse bene o, come ha detto il Pibe, non sa la differenza tra la palla da football e quella da calcio. Ah già, ma Maradona in fondo è solo un ex-tossicodipendente. Sarà…
Né queste righe né la condivisione di chi legge potrà arrestare questa deriva ma almeno scrolliamoci di dosso l’idea che moderno significhi per forza progresso.
Potevamo veder esultare Buffon dopo il rigore parato a Kalinic e nel frattempo il colpo del ko di Nainggolan al Napoli ma troppe emozioni fanno male, meglio diluirle in un paio di giorni. Una volta Siligardi non avrebbe esultato così tanto sapendo che Lasagna nel frattempo aveva già condannato il Verona in B. O chissà, forse lo avrebbe capito mentre mandava baci in tribuna vedendo la reazione dei compagni in panchina, connessi con le auricolari al Castellani di Empoli. Sarebbe stato crudele, d’accordo, ma almeno sarebbe stato vero. E soprattutto sportivo.
La prima volta che ho fatto i conti con questa pessima tendenza di non giocare più nemmeno le ultime quattro partite in contemporanea è stata nel maggio del 2009 quando il Milan cadde a Udine consegnando lo scudetto all’Inter. I nerazzurri erano in ritiro per preparare la gara contro il Siena e festeggiarono sobriamente con i tifosi giunti alla Pinetina. Ero seduto a un tavolino in centro, appresi la notizia sentendo il suono ovattato di qualche clacson in lontananza. Non feci una piega, pervaso dall’amarezza e la sera dopo, nel segno di un vano dissenso, non andai a San Siro rinunciando alla festa.
Se il Tottenham dovesse perdere lunedì sera il Leicester festeggerà comunque la vittoria del campionato. Si riverseranno nelle strade vivendo la più irripetibile delle feste ma nessuno mi convincerà che sarà più bello che sdraiarsi in lacrime sul prato dell’Old Trafford.
Quale sogno più grande avrebbero potuto fare che vincere il campionato in uno stadio soprannominato “Teatro dei Sogni”?
La Juve festeggerà quando a Pogba sarà già passata la sbornia. Potere del calcio moderno, quello del Dacia Arena coi seggiolini colorati per illudere le telecamere di non essere deserto, delle stelle vendute a 250 euro allo Juventus Stadium per convincere i tifosi di non essere solo dei clienti. E la cosa più assurda è che sono esaurite.
Questo è il calcio di Infront, condannata dall’Antitrust a pagare 9 milioni di euro per aver truccato l’asta per l’assegnazione dei diritti tv con un accordo sottobanco tra Mediaset, Sky e Lega Calcio, che di milioni ne verseranno 51, 9 e 2. Li pagheranno mai? Non importa perché tanto al momento di dividersi la torta si saranno già cuciti un bel paracadute.
Lo stesso che mia nonna nascose ai tedeschi per portarlo ai partigiani. Consentitemi l’azzardo anche se è appena passato il 25 aprile, un’altra occasione per leggere slogan fuori luogo ma non so come resistere alla passione per un calcio che talvolta, non per colpa sua, mi tradisce.
Non succederà più,
d’amore te ne ho dato tanto
ma non devo dartene più
e voglio pensare un po’ a me
(Non succederà più – Claudia Mori e Adriano Celentano)