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PERDERE TE

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In difesa c’è un ragazzo coi baffi neri troppo adulti per la sua età. E un altro difensore, non più ragazzo, a cui il friulano in panchina aveva ordinato la marcatura di Maradona e Zico. Aveva usato le maniere forti, quelle che non si usano più. Quelle che finché l’arbitro non vede vale tutto. C’è un portiere, ancor meno ragazzo, salito sull’ultimo palco della sua carriera, uno stopper con la erre moscia da avvocato e un terzino forse più bello che bravo. A dirigerli, da dietro, un libero elegante e educato che morirà troppo presto fra le lamiere di un’auto in Polonia. È la sera dell’11 luglio 1982 e in mezzo al prato di Madrid c’è anche un mediano da una vita o una Vita da mediano se preferite, una mezz’ala che urlerà più forte di Munch e un numero 7 di Nettuno che ara la fascia e pare davvero di un altro pianeta.

A ricevere gli arcobaleni disegnati dal numero 7 c’è un attaccante che del Ciccio ha solo il soprannome e poi c’è il ragazzo della porta accanto, quello col soprannome comune e il raro talento di trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Soprattutto in quest’estate che lo ribattezza Pablito.

A tifare questa banda c’è l’Italia che sta uscendo dagli anni di piombo e si prepara alla Milano da bere. È l’Italia del pallone, quella che per pulirsi la coscienza e darsi un’aria di legalità ha punito, tra gli altri, anche il ragazzo della porta accanto. Quello che col calcioscommesse e quella faccia lì non può proprio centrare proprio.

Ha giocato quattro partite negli ultimi due anni ma il friulano in panchina è abituato a prendere decisioni fumando la pipa più che leggendo statistiche, e così se lo porta dietro lo stesso.

Non ci crede nessuno in quella squadra, tantomeno Gianni Brera che ha promesso di entrare in convento se batteranno il Brasile.

Il ragazzo della porta accanto, Paolo di nome e Rossi di cognome, fa piangere il Brasile dopo un girone eliminatorio al limite dell’imbarazzo. Brera non entra in convento, aspetta di vedere rimandato il suo pronostico solo di qualche giorno. Ma il friulano con la pipa e il suo pupillo in attacco non sono d’accordo. Malmenano l’Argentina, sorpassano la Polonia e se nella finale di Madrid se la vedono con la Germania.

In questa storia di tabagisti e baffi neri c’è anche un altro protagonista, un partigiano come Presidente che dopo l’urlo di Tardelli si alza in piedi e dice “Non ci prendono più”, mandando a farsi fottere etichette e protocolli. Se la giocherà a scopa sull’aereo quella Coppa del Mondo, con Franco Causio, il friulano con la pipa e il friulano coi guanti.

Ma se tutto questo si realizza è soprattutto grazie a quel bravo ragazzo col numero 20, quello che non ha niente del bomber (parole sue) ma segna 6 gol nelle ultime 4 partite, come quelle giocate negli ultimi due anni. Ha la pelle liscia e il fisco da maratoneta. Dentro a quella maglietta larga si agitano i cuori di un’Italia incredula e vibrante, quella che si accorge che forse tutto è possibile.

Paolo Rossi come Garibaldi, eroe nazionale, francobollo e icona sulle banconote se ci fosse ancora la lira. La sua morte ha commosso tutti, chi l’ha visto e chi non c’era. Chi, come mio padre, quella vittoria a Madrid l’ha festeggiata facendo il bagno in una fontana e chi, come me, quell’11 luglio 1982 compiva un anno e dormiva sul divano mentre Dino Zoff alzava la Coppa del Mondo.

C’è anche una voce narrante in questa storia, quella di Nando Martellini che scandisce tre volte Campioni del Mondo unendo l’Italia pallonara e non, l’Italia che si affezionerà per sempre a Paolo Rossi e il suo sorriso.

Mi sono chiesto come sia possibile legarsi a un uomo senza averlo mai visto. Potere del gol, dei libri e le canzoni. E infatti lo chiamavano Poeta del gol.

Ma Paolo Rossi, oltre che un poeta, rappresenta il compagno di classe che ti passa la versione, il collega che fa mezz’ora di straordinario quando hai un appuntamento importante, l’amico che non ci proverà mai con la tua ragazza.

È la rivincita della normalità, quella passata di moda come le marcature a uomo.

Non aveva davvero niente del centravanti, tranne una cosa: la capacità di far piangere il Brasile giocando in 16 metri per 40 di erba.

È stato un eroe a bassa voce, facendoci sentire come lui quando mettevamo gli zaini a far da palo ed esultavamo a braccia alzate verso una curva immaginaria. Paolo Rossi ha vissuto nei cortili dei bambini e sulle scrivanie degli impiegati, è L’italiano di Toto Cutugno con un cognome comune e una carezza nel piede.

Impossibile trovare un giocatore con le sue caratteristiche nel calcio moderno, molto difficile trovare un uomo così semplice e discreto nella quotidianità.

Quel bastardo magut ha messo un altro mattone di malinconia su questo muro invalicabile del 2020.

A ricordarcelo c’è la voce rotta dei suoi compagni di quella favola mondiale. Ci sono le lacrime di Bruno Conti, il discorso commosso di Cabrini, lo sguardo basso di Bergomi che si è tagliato i baffi da un po’. C’è Altobelli che dello Spillo ha conservato solo il soprannome e Claudio Gentile che non riesce a rispondere e lascia i giornalisti coi microfoni in mano. Anche chi ha menato il Pibe ha un cuore.

Ad aumentare il dolore c’è la Vicenza che lo ha adottato e una nazione intera che ha legato a quella faccia perbene il Made in Italy. C’è persino il dispiacere del Brasile che rende omaggio all’uomo che lo mise in ginocchio tre volte. E sapete, è difficile per i brasiliani ammettere che ci sia stato un giocatore più grande dei loro, fosse anche solo per 90 minuti.

Fuori dal duomo a salutare Paolo Rossi, che mentre gioca a carte sulle nuvole con Pertini, Bearzot e Scirea starà pensando che questo omaggio è esagerato, ci sono padri e figli, nonni e nipoti. E poi c’è un gruppo di amici che portano sul sagrato il peso della gloria e ci dicono una volta per tutte quanto non conti vincere o perdere ma quanto conti la vita che, come ha scritto Mauro Berruto, è il gioco di squadra che sta in mezzo a questi due istanti.




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