di Roberto Berri
Penso che ti abbiano ucciso. Il 5 giugno 1999, il 14 febbraio 2004 e tutte le altre volte che ti hanno “indagato”, basandosi su niente. Ti hanno ucciso quelli che ti hanno voltato le spalle. Ti hanno ucciso quelli che ti hanno lasciato solo.
Ti hanno ucciso quelli che, quando hai provato per l’ennesima volta a rialzare la testa, ti gridavano “drogato”, “dopato”. Ti ha ucciso l’ignoranza. Ti ha ucciso l’invidia. Ti ha ucciso la paura della solitudine.
Penso che Madonna di Campiglio sia stata una buffonata. E meglio di me lo pensa chi ha studiato, analizzato, chi non si è fermato ai luoghi comuni. Buffonata il controllo (non antidoping ma “per l’incolumità dell’atleta”). Buffonata l’ematocrito a 51.9 quando era 48 otto ore prima e due ore dopo, ad Imola. Buffonata la selezione degli atleti da controllare. Buffonata ed irregolare (e questo è ormai accertato) la selezione della provetta. Buffonata il mancato dosaggio dell’emoglobina, una volta rilevati i valori dell’ematocrito. E poi il valore piastrinico, assurdo; i tempi della centrifuga della provetta, i NAS e l’uscita scortato dai carabinieri. Chiunque ha visto la tua intervista a caldo, quella mattina, ha visto gli occhi di una persona che aveva capito di essere stato rovinato, non di essersi rovinato.
E poi, e poi le dichiarazioni ai processi, nessuno sa niente, nessuno ha colpe, nessuno ha deciso, tutti hanno fatto solo quello che è stato ordinato loro…
Come sempre…
Penso che tu, Marco, sia un esempio. Ma non quell’esempio negativo che loro vorrebbero far passare. No. Tu sei il paradigma di quanto sia difficile, anzi, impossibile, essere accettati come il migliore. Di quanto sia fugace la passione, se non è alimentata e sorretta da un sentimento profondo e dalla ragione. Di quanto sia più facile e consolante attaccarsi a luoghi comuni piuttosto che mettersi a pensare, riflettere, con la propria testa. Penso che tu sia l’esempio di quanto sia estremamente semplice scrivere il copione di una fiction riempiendola di cazzate piuttosto che mettersi a cercare la verità.
Penso che tu sia un esempio di dolce fragilità, di umiltà, di fiducia, anacronistica, nelle persone e nel fatto che, prima o poi, avrebbero capito tutti chi sei.
Penso che più di tutto ti abbia ucciso la solitudine. Penso che la solitudine sia la compagna peggiore quando si debbono prendere delle decisioni o fare delle scelte. Penso che la solitudine sia lo spietato contrappasso della vita degli eroi. Penso che la tua solitudine, nonostante l’amore di tua mamma e di pochissime altre persone, sia stata una solitudine così profonda da annebbiare ogni ricordo, cancellare ogni trionfo, annullare ogni speranza. Volevano che tu rimanessi solo, e ce l’hanno fatta.
Penso che quando ti svegli nel pieno della notte, e non hai nessuno da abbracciare, nessuno che ti ascolta, nessuno che ti sorride, allora forse puoi anche arrivare a pensare che la cocaina non sia poi il male peggiore. Penso che quando ti svegli nel pieno della notte e senti che eri più felice mentre dormivi, allora lo capisci che cos’è la solitudine.
Penso spesso a cosa hai pensato tu nell’attimo prima di morire. Con la faccia a terra, accanto al divano, in quella maledetta stanza. In quel maledetto residence. Sempre che tu fossi ancora vivo. Sempre che non sia stata tutta una messa in scena, come fanno pensare le telefonate, il tuo orologio fermo alle 17.45, lo studiato disordine di quella camera, i farmaci. La cocaina. Che qualcuno dovrà pur averti portato.
E la velocità nel proclamarti depresso suicida. I rilievi.
L’approssimatezza di tutto.
Che qualcuno da anni sta gridando, dimostrandola, cocciutamente, con il coraggio che solo una madre ferita può avere.
Penso che il 1998 sia stato l’anno più bello della mia vita. E tu ne sei stata la colonna sonora. Tu, Dezan e Cassani. Le grida che arrivavano da tutto il quartiere quando decidevi che era il momento giusto per alzarti sui pedali. Penso che emozioni così siano eterne: Mortirolo, Aprica, Pampeago, Alpe d’Huez…la Spagna, le grigliate con gli amici, i tornei alla Play Station (che non aveva ancora un numero). La maglia rosa, la maglia gialla, i due trionfi…il correre a casa a guardare la TV…i mondiali di calcio in Francia, il gol sbagliato di Roby, il rigore di Di Biagio…
E poi la mattina del 5 giugno 1999, l’edizione speciale del TG5, il televideo, il tuo volto rassegnato, le tue parole, la sensazione di qualcosa che finisce a due giorni dalla fine di quel giro che era tuo, perché lo stavi divorando. Lo stop di 15 giorni e tu che non te la senti di partire per il tour…
E poi la sera di sabato 14 febbraio 2004, l’edizione speciale del TG2: “E’ morto Marco Pantani…”. Togli la camicia del sabato sera, ti metti nel letto, spegni la luce.
E piangi.
Penso che nemmeno l’amore a volte ce la possa fare a superare tutto questo. Penso che quando sei diverso, quando la tua mente, la tua anima sono diversi, sia più difficile essere amati, e lasciarsi amare. Penso che sia più facile, per una donna, amare un uomo più normale. Ma penso anche che chi è come te sappia amare più profondamente. Penso che i tuoi occhi, come parlavano a chi da lontano, attraverso uno schermo, ti vedeva alzarti sui pedali e partire, così, sicuramente, parlavano a chi ti stava accanto ogni giorno.
Penso che spesso lasciarsi amare possa essere più difficile che scalare l’Alpe d’Huez; o anche solo di dare 13 esami all’università in 40 giorni.
Penso che il fascino della solitudine, a volte, sia così forte da portarci a tradire i nostri sentimenti.
Ma penso anche che chi dice di amarti o ti ama per sempre o non t’ha mai amato.
Penso che continuerai a mancarmi, pirata.
Penso che alla fine, per capirsi, bisogna essere uguali, o quantomeno molto simili.
Penso che dopotutto, alla fine, noi non siamo così diversi.
“…E mi rialzo sui pedali ricomincio la fatica
Poi abbraccio i miei gregari passo in cima alla salita
Perché quelli come noi hanno voglia di sognare
E io dal passo del Pordoi chiudo gli occhi e vedo il mare
E vedo te
E aspetto te…”
(Stadio – “E mi alzo sui pedali”)