In ufficio trionfava la solita noia e durante una pausa chattai con Lucia. Dopo una piacevole chiacchierata digitale le proposi di uscire.
“Questo week end sono via. Mi dispiace Paride”.
Da terzino scafato dovevo aspettarmelo. Era una con cui giocare d’anticipo, non potevo certo rimediare con una scivolata fuori tempo. Io mostravo una gran voglia di vederci, lei invece si accontentava di sentirci.
In quei giorni aveva cominciato ad aprirsi ma parafrasando J-Ax non volevo saluti o auguri o un altro numero in rubrica. Volevo la carne, le labbra.
Da una decina di giorni questa storia non aveva risvolti, così decisi di chiudermi in silenzio stampa con Romeo finché non ci sarebbero state novità.
Eravamo infaticabili presenzialisti degli appuntamenti universitari, nonostante la laurea l’avessimo già presa già un pezzo. Ci imbucammo alla festa di Medicina e dopo un paio di cocktails ci sembrò un’ottima idea importunare le studentesse chiedendo se volevano giocare al dottore. In città si diceva fossero le più disponibili ma o avevamo avuto una soffiata sbagliata o serviva la ricetta. Nessuna ci volle visitare così ci mettemmo in un angolo con un piede appoggiato al muro a progettare l’addio al celibato di Carlo. Romeo era il testimone e pensava a un fine settimana al mare. Eravamo stanchi dopo una stagione di serate intense ma a un appuntamento del genere ci saremmo presentati puntuali come due svizzeri mangia-emmenthal col flick flack al polso e la barretta di cioccolato in tasca.
Quella serata fu la quiete prima della tempesta che avrebbe sconvolto il mio animo.
La mattina dopo mi svegliai alle 7.00 con la solita discussione in cucina. Quei litigi sempre più frequenti mi spingevano a voler lasciare il nido. Dovevo tagliare il cordone ombelicale, mi meritavo un risveglio tranquillo; soprattutto dopo la festa di Medicina al giovedì sera. Volevo svegliarmi senza pensieri, trascinarmi in bagno, pulirmi lo schifo dagli occhi e togliere la marmellata dal frigo perché se la mangi fredda non sa di niente.
Andando al lavoro pensai a chi tira la cinghia a fine mese, a chi combattere contro una malattia, a chi sopporta ogni giorno colleghi indigesti, e in tal senso avevo le mie croci, però pensai che anche per Vasco, Maradona o Mick Jagger, diventati leggende ancor prima di morire, non dev’essere poi così facile. Come fanno a convivere con l’aura di mito che li circonda? Hanno una sorta di condanna. Dorata ma pur sempre una condanna.
Come si fa a tornare sulla terra dopo aver cantato davanti a 60.000 persone in estasi?
Forse è per questo che comprendo certi eccessi. Non li giustifico. Ma li capisco.
Guidando pensai a una categoria di miti che mi affascinano ancora di più: quelli che spariscono, come Roberto Baggio. Dopo il suo ritiro non ha rilasciato interviste a parte una alla Gazzetta dello Sport e un’altra per la trasmissione Sfide di Raitre. Nei tre anni successivi al ritiro è apparso solo alla festa del centenario dell’Inter. Per il resto niente.
Perché? Perché avrebbe faticato a confrontarsi col suo mito, con chi lo avrebbe sempre trattato per il Roby calciatore. Soltanto chi durante la carriera è riuscito a costruirsi una realtà parallela riesce a sparire. Soltanto chi è riuscito a circondandosi di persone che lo trattino da marito, papà, amico. Ma non dev’essere facile.
E’ stato il migliore anche in questo. Non si è trasformato in una macchietta alla tv, non si è riciclato come direttore sportivo o in qualche reality. Non ha ceduto alle avance pubblicitarie né tanto meno si è ridicolizzato in qualche ospitata.
E’ stato troppo grande per una fine del genere.
Nel 2010 è stato eletto Presidente del settore tecnico delle Federazione ma dopo nemmeno tre anni si è dimesso con queste parole: “Non ci tengo alle poltrone. Il mio programma di 900 pagine, presentato a novembre 2011, è rimasto lettera morta, e ne traggo le conseguenze”.
Sulla giostra del pallone non c’è posto per lui o almeno non c’è il posto che gli spetta. E allora meglio scendere.
Zico disse che un calciatore muore due volte: la prima è quando smette. Lo stesso è stato per Roby e sparendo dalla nostra quotidianità si è infilato silenziosamente nella sua dimensione; rimanere prima di tutto padre, marito e amico, nonostante la domenica segnasse certi gol, mi fece comprendere la grandezza del campione.
Tornato a casa guardai nostalgicamente una raccolta delle sue prodezze e pensai che un atleta sa che dopo quindici anni i riflettori si spengono mentre un artista è continuamente richiamato sul palco. E’ costretto a rinnovarsi.
Ma dove trova gli stimoli uno come Paul McCartney? Eppure non sembra appagato, non teme il confronto col passato.
Che mestiere quello del mito. Condannato a stupire ed emozionare.
I miei problemi erano altri, anzi io avevo problemi tra virgolette, ma non ero cattivo e difendevo il mio spazio con cognizione.
E questo mi rincuorava.