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SIMONI SI NASCE

1805

Il 29 novembre del 1998 è un giorno che ricordano in pochi. L’Inter è ancora in hangover a causa di una notte stellata, quella che quattro giorni prima l’ha vista schiantare niente meno che il Real Madrid in Champions League. Ma di fronte adesso, in questa domenica insolitamente calda per Milano, c’è la piccola Salernitana del ruspante Delio Rossi che fuma una sigaretta dietro l’altra. Il segugio Gattuso non è ancora Ringhio e David Di Michele è a quota zero gol in serie A. Fino al 43° del primo tempo, quando trafigge Pagliuca con un tocco sotto. Una carezza per Salerno. Il definitivo schiaffone per i nerazzurri che vanno nello spogliatoio a prendersi un moment.

È una squadra stanca l’Inter e orfana di un certo Ronaldo Luis Nazario da Rio de Janerio, uno dalla media di un gol a partita in un’epoca in cui i difensori menano come terzini da dopo lavoro ferroviario. Uno che ha appena convinto la Nike ha vestire tutta la squadra perché l’azienda non può accettare che giochi con una maglietta diversa dalle scarpe che indossa.

Nel secondo tempo la musica cambia. Un analgesico o forse due paroline dell’uomo in panchina fanno smaltire ai nerazzurri la superbia di aver battuto i campioni d’Europa. Tutto in un quarto d’ora. Tra un guizzo di Djorkaeff, una sgroppata di Moriero e qualche spallata di Zamorano. Uno spartito scritto da un direttore d’orchestra insolito, uno che non aveva mai allenato una grande squadra e che dopo quel pomeriggio non l’allenerà mai più. Si chiama Luigi, detto Gigi, Simoni ed è nato a Crevalcore all’alba della guerra.

È un tecnico rispettato da tutti ma a cui nessuno aveva dato una possibilità sul grande palco. Nessuno a parte Massimo Moratti, petroliere della Milano bene disposto a spendere una finanziaria pur di eguagliare la grandezza del padre. E Gigi Simoni alla prima occasione gli ha regalato un successo in Coppa Uefa, nella stagione precedente, in un momento storico in cui i difensori menavano come terzini del dopo lavoro e la Coppa Uefa era roba seria. La finale di qualche mese prima al Parco dei Principi di Parigi è stato, per ora, il momento di maggior successo per entrambi, con un 3-0 sulla Lazio che ha saziato i tifosi dopo anni di delusioni.

Ma evidentemente non ha saziato Moratti perché le cose in campionato vanno male e nemmeno l’aurea mistica di Baggio è sufficiente a lottare per lo scudetto. In quel secondo tempo contro la Salernitana il Codino ispira il pareggio di Simeone e al quarto minuto di recupero, quando resta il tempo di un Padre Nostro, il cattolicissimo Zanetti pesca il jolly con una sassata da venti metri. Finisce 2-1 e Simoni, che si era allentato la cravatta per ossigenare i polmoni, può tirare un sospiro di sollievo. Un sollievo che dura giusto il tempo di una notte e un caffè a colazione. Il giorno dopo è il giorno della beffa, il crocevia della carriera e che dal cielo di Parigi lo riporta sulla terra operaia da cui è venuto. Il Patron Massimo ha già deciso e a niente serve quella vittoria all’ultimo respiro.

Dopo aver ricevuto in premio la Panchina d’Oro, per quanto fatto nella stagione precedente, Simoni viene esonerato da Moratti. Proprio lui, il Presidente che ha creduto in lui più di tutti e l’ha difeso fino all’ultimo. Ma si può essere esonerati dopo due successi, e soprattutto cinque giorni dopo aver battuto il Real? All’Inter forse sì ma in un mondo ideale no. Ma quello di Simoni non è un mondo ideale. È il mondo dei buoni, quelli che vincono solo nei film e quel lunedì è la sintesi beffarda della sua carriera.

Gentiluomo è l’aggettivo che gli si attribuirà di più. Un uomo gentile. Un allenatore capace di far convivere Taribo West, uno che giocava a fare il predicatore e costringeva i compagni ad assistere ai suoi sermoni, col mutismo di Benoit Cauet, tanto per dire. Un uomo talmente gentile che persino in quel “Si vergogni!”  a Ceccarini, nella pagina più famosa del dualismo Inter-Juve, sembra non riuscire a svestirsi della sua eleganza.

Con Gigi Simoni se ne va un esemplare di una specie in via d’estinzione, quella degli uomini d’onore. Perché fondamentalmente Gigi Simoni è stato questo: un galantuomo, nel senso etimologico del termine.  Un uomo galante, retto, leale. Sempre, comunque. Anche di fronte a un esonero. Ha sempre dichiarato di non aver mai serbato rancore nei confronti di Moratti per quell’esonero. Lui ha fatto la valigia e se ne è tornato in provincia mentre L’Inter è entrata in un abisso di sconfitte.

Ma come si fa a diventare Simoni? Non si può. Simoni si nasce. Per questo oggi lo rimpiangono tutte le piazze che ha allenato. Un giro d’Italia il suo: Genoa, Brescia, Pisa, Lazio, Empoli, Cosenza, Carrara, Cremona, Napoli, Milano e il cielo di Parigi e poi Piacenza, Torino, Sofia, Ancona, Siena, Lucca, Gubbio e ancora Cremona, dove forse lo amano di più. Dove l’hanno eletto Allenatore del Secolo.

Un uomo qualunque di rara gentilezza, un padre calcistico. Una persona speciale a suo agio con tutti.

Gigi Simoni è la prova che si può lasciare il segno anche senza stravincere e che si può essere ricordati anche perdendo o arrivando secondi.

E che, vivaddio, vincere non è l’unica cosa che conta.

Con lui se ne è andato un altro pezzo della mia adolescenza calcistica. Nella testa della mia generazione sarà sempre in piedi davanti a una panchina, avvolto nel giaccone coi capelli argento, il nodo grosso alla cravatta e il sorriso rassicurante del vicino di casa che sa riparare qualsiasi cosa.

Il cielo di Parigi che aveva toccato con un dito, dopo vent’anni di anonimato, non è mai stato così vicino come oggi.

Se ne è andato il 22 maggio. Non è un caso. Niente accade per caso. Nel giorno che celebra il decennale del Triplete sembra dirci Vuoi prima la notizia bella o quella brutta? Come quella volta con la Panchina d’Oro in una mano e l’esonero nell’altra.

Difficile trovare un interista che non sia affezionato a lui quanto a Mourinho. È strano perché il peso dei successi è molto sbilanciato. Il motivo sta dietro alla sua indimenticabile educazione, a quella Coppa Uefa dal sapore di riscatto vinta da un uomo che non ti aspetti ma a cui vorremmo assomigliare.

E se è vero, com’è vero, che un uomo muore davvero solo quando muore l’ultima persona che lo ama, allora Gigi Simoni è destinato a vivere per sempre.




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