Il tempo in cui il terzino estone lavorava come postino e l’attaccante panamense aiutava il padre in negozio è finito da un pezzo. Solo mia madre ci credeva ancora quindi benvenuta nel calcio moderno Elena.
Ma moderno talvolta fa rima con inferno e così il ritiro azzurro stile Olanda anni ’70 ha portato Prandelli alle dimissioni, merce rara in Italia.
Gran parte di quegli innovatori olandesi erano i lanceri dell’Ajax guidati da un visionario chiamato Johan Cruyff e in ritiro oltre alle mogli portarono soprattutto il calcio totale. I nostri invece, blocco Juve a parte, erano un gruppo eterogeneo difficilmente amalgamabile con le signore a tavola.
I pettegolezzi sulla permanenza a Mangaratiba si sprecano, così come gli aneddoti dei quali non sapremo mai la verità, ma pur senza arrivare alla clausura di don Fabio (che nonostante la prematura eliminazione della Russia ha rischiato di ricevere una buonuscita di ben 25 milioni) bisognava gestire diversamente il soggiorno brasiliano.
Partiamo dalla fine. Da quel vaso di Prandelli pieno delle nostre speranze che alle prime difficoltà si è rotto seguendo le crepe di una squadra spaccata tra giovani e senatori, così mentre Balotelli sul pullman del ritorno pensava già alla prossima pettinatura, Buffon passava da paratutto in campo a paraculo in sala stampa. Ma un capitano non si comporta così synthroid online. Un vero capitano avrebbe appeso al muro il compagno di squadra per poi chiedere scusa ai tifosi per la figuraccia fatta da tutti. Un capitano difende sempre e comunque il gruppo.
Sì ma quale gruppo?
Sul podio degli alibi salgono l’assenza di prime punte, la difesa a 3 e persino il clima tropicale, e come sempre i migliori diventano gli assenti. Succede così che Criscito diventi un terzino di spinta, Romulo un esterno tuttofare, Toni la vecchia volpe a cui non poter rinunciare, Destro e Gilardino attaccanti col fiuto del gol e via tutti sul carro dei fenomeni esclusi.
Ma tornando seri, chi altro poteva convocare Prandelli?
Nel bagaglio per il Brasile il cittì aveva messo la finale dell’Europeo raggiunta tra scetticismo e bel gioco e la qualificazione al Mondiale ottenuta senza affanni. Come da tradizione non ci siamo fatti mancare i tormentoni del codice etico e l’esclusione di Pepito Rossi, vero, ma Prandelli era il vicino al quale daremmo le chiavi di casa quando andiamo in ferie.
Godeva di buona fiducia, una fiducia cresciuta dopo l’Inghilterra ed evaporata contro Costa Rica.
Già, il Costa Rica…
Quelli che la mamma pensa ballino la bachata tutto il giorno e che invece hanno fatto ballare noi. Altro che palme e rum scuro, due settimane dopo si scopre che il colombiano Luis Pinto è un allenatore con trent’anni di esperienza e che metà caraibici giocano in Europa, anche se in quella minore (Levante, Saprissa, Rosenborg, Salisburgo, Copenhagen, Olympiakos, PSV).
Chi non doveva sorprendersi però è Prandelli che sballottato dalle critiche ha perso le redini di una squadra forse mai stata tra le sue mani.
Non saremmo comunque andati lontano ma c’è il rimpianto di non aver tagliato il traguardo minimo con quel poco (ma sufficiente) materiale a disposizione. Campioni non ce ne sono, d’accordo, ma se sette undicesimi degli Stati Uniti giocano nella MLS allora la Serie A non può essere l’unica responsabile del fallimento. Dopotutto il campionato italiano ha fornito Zapata, Yepes, Zuniga, Armero e Cuadrado alla Colombia, Inler, Berhami e Lichsteiner alla Svizzera. Giusto per citarne alcuni…
L’insostenibile leggerezza dell’essere allenatore ha portato Prandelli in Turchia ma a dicembre il Galatasaray, nonostante il secondo posto in campionato, lo ha esonerato dopo una brutta eliminazione in Champions.
La gente dimentica in fretta ma il calcio ancora di più e l’Europeo 2012 sembra lontanissimo anche se Cesare aveva nascosto il momentaccio del nostro calcio illudendoci di non essere poi così indietro rispetto alle grandi d’Europa.
Ceduto il passo all’Uruguay l’imperativo era ripartire dalle (poche) note positive e arricchire il gruppo con ciò che di meglio avrebbe offerto il campionato. L’eliminazione della Spagna al primo turno dimostrava quanto fosse ciclica la storia e come in due anni tutto potesse cambiare.
Mai era stato messo un punto e a capo così netto dopo un fallimento, mai la nazionale era atterrata nella totale indifferenza, orfana di allenatore e presidente federale.
La priorità era un tecnico carismatico, motivatore più che esteta, psicologo più un tattico perché fare l’allenatore è una cosa ma fare l’allenatore della nazionale è un’altra. Il pensiero è andato subito ad Ancelotti e Conte, artefice della ‘decima’ il primo, faro della risurrezione bianconera il secondo. Sembravano blindatissimi ma nel calcio si può desiderare la roba d’altri e quello che ieri sembrava impossibile oggi diventa realtà e succede che con una dichiarazione “agghiacciande” Antonio lasci la Juve per una nuova sfida. Questione di feeling con la dirigenza si dirà.
Nella testa di tutti è l’uomo giusto, il principe azzurro che risveglierà la bella addormentata. Vuoi che l’uomo che ha ridato appeal a una vecchia signora non faccia tornare in passerella la più amata dagli italiani?
E invece dopo un buon inizio l’infortunio di Marchisio raggela definitivamente l’affetto di quei tifosi che per tre anni l’hanno ascoltato come il messia. Storia di tweet smentiti e dichiarazioni al vetriolo. A Torino adesso comanda Allegri, l’aziendalista rossonero osteggiato da tutti. Sembrava fantacalcio un’estate fa.
Mentre Conte recita la solita preghierina degli stage per la nazionale si becca pure le accuse di eccessivi carichi di lavoro ma nel video si vede Marchisio fermarsi dopo un normale esercizio di riscaldamento. Popolo di santi, poeti e polemizzatori.
La questione è un po’ più complessa. Il fatto è che ci siamo seduti sugli allori degli anni ’90 quando i club erano ai vertici e le sette sorelle richiamavano i migliori al mondo. Oggi non serve lamentarsi dei capitali arabi e orientali che invadono il mercato perché è lo stesso sistema che abbiamo creato noi dando il cattivo esempio di Parmalat e Cirio. La nostra egemonia è finita grazie alla poca lungimiranza dei nostri dirigenti che hanno partorito Tavecchio e la tragicommedia di Parma. D’altronde il pedigree è lo stesso dei colletti bianchi in Parlamento, non stupiamoci.
Bisogna rifondare un sistema ormai superato ispirandosi ai buoni esempi che arrivano dall’estero e mettendoci del nostro. Troveremo presto la nostra strada recuperando il tempo perduto perché nelle difficoltà ci esaltiamo e così sarà anche stavolta. Possiamo prendere lezioni di organizzazione dai tedeschi e di stile dagli inglesi ma in quanto a passione e creatività non siamo secondi a nessuno.
Adesso che il Psg potrebbe ingaggiare Vettel come autista del pullman un bambino sta giocando in un barrio argentino o in qualche favela di Rio o in un parchetto di Caldogno, un bambino con un talento sceso dal cielo e coltivato nelle terre dove la tradizione del calcio ha radici profonde. Quindi niente paura degli americani a Roma o dei cinesi in Via Turati, non ci spaventi quell’indonesiano seduto accanto a Moratti perché mentre i capitali si spostano la passione resta lì, in un vicolo di Buenos Aires, su un marciapiede di San Paolo, in un campetto di Caldogno.
La classe si compra ma non si semina.
E’ il medioevo del calcio italiano eppure continuiamo a guardare questo gioco tifando i nostri colori, in apparenza con meno trasporto e passione, aspettando il risorgimento.
Senza fretta.
Per rinascere non basteranno solo gli stadi di proprietà o scommettere su giovani da svezzare, non basterà investire nei settori giovanili o puntare sull’associazionismo dei tifosi come in Germania. Non basterà solo questo ma almeno ci farà guardare al presente e aprendo gli occhi capiremo che il tempo in cui il terzino estone lavorava come postino è finito da un pezzo.