Entro nel bar. Deserto. Nessuno. Nessuno di nessuno. Non so cosa prendere ma dovrò mangiare qualcosa altrimenti alle otto avrò una fame boia. E’ solo mezzogiorno e il corso non inizierà prima dell’una e mezza.
Decido per un panino tacchino-insalata-e-maionese. Lo ordino così, tutto d’un fiato. La cameriera ha gli occhi azzurri come un husky. La sorprendo mentre gioca con lo smartphone. Non mi piacciono i cani ma gli husky sì. E’ paffuta, vestita vagamente metal e risponde alla mia gentile richiesta con un sorriso. Le guance si gonfiano e compaiono due fossette.
Mi porta al tavolo una bottiglietta d’acqua a temperatura ambiente. Non bevo mai l’acqua dal frigo. Ho solo 35 anni e già qualche abitudine da anziano.
Per finire prendo un caffè. In mezzo morsi lenti e calibrati, devo far trascorrere un’ora e mezza e il panino non è poi così grande.
Entra un cliente e dal saluto percepisco una profonda intesa tra i due. Le si rivolge con accento slavo e mi sembra strano visto che la cameriera ha la stessa cadenza di Samuel dei Subsonica.
Invece mi sorprende e dalle labbra carnose escono parole dure e spigolose che solo a est delle Alpi ho già sentito. Sarà rumena, forse albanese dai tratti, e la cosa più divertente è che parla pure un perfetto torinese.
Ho ingerito l’ultimo boccone, ho vuotato il bicchiere e anche il sapore di caffè sta pian piano lasciando il mio palato. Non mi resta che giocare col telefono, fingendo d’interessarmi a inutili notifiche.
Fuori piove, tanto. Sarebbe una di quelle giornate in cui oziare sdraiato sul divano con la testa appoggiata sul braccio e la mano tesa in uno zapping compulsivo.
In realtà pregusto già la serata. Sarà un raro momento da single che ormai avevo lasciato nel dimenticatoio.
Mi son portato la pasta da casa in stile “Totò, Peppino e la malafemmina”, un po’ per risparmiare e un po’ per sentirmi quello studente fuori sede che non sono mai stato.
Ho anche tonno, sughi, biscotti, formaggio, caffè e soprattutto una boccia di prosecco e una di bianco, quello fatto da mio padre.
La cosa migliore, a coronamento di questa cena, è che giocherà la nazionale. E poco importa che di fronte ci sia l’Albania perché di Cenerentole in questo calcio, a parte Fiji e Andorra, non ce ne sono più. Nessun nocchiere lascerà il posto a una zucca stasera.
Credo opterò per il sugo mascarpone e noci e pasteggerò a prosecco, dedicandomi a uno dei miei masochismi preferiti: quello alimentare, secondo solo a “Notte senza donne” ascoltato nelle estati d’amore non corrisposto.
Non ho ancora incontrato la proprietaria. Greca, se non ho capito male.
Il corso è finito, tornando a casa faccio in tempo a imbucarmi all’inaugurazione di un ottico che distribuiva spritz come fossero preservativi al gay pride. Quattro o cinque flute, piccoli di plastica, qualche sushi dal riso colloso e poi via verso il mio nido d’amore: solo io e gli azzurri.
Lemonica non c’è. Le chiavi me le dà Fabrizio. Quarant’anni, credo; trasmette simpatia, barba dei tre giorni. Convenevoli. “Ciao. Piacere. Questa è la camera da letto. Lì il bagno. Ecco la cucina. Stoviglie di qua. Asciugamani di là”.
“Dai muoviti che tre mezz’ora scendono in campo i ragazzi” – penso.
“Si respira un raro calore in questo appartamento” – dico.
Il tempo di mettere su l’acqua per la pasta e son già sotto la doccia. Le piastre a induzione sono a cannone. Il boiler ci metterà venti minuti per portare l’acqua alla giusta temperatura ma le lancette avanzano inesorabili verso gli inni nazionali e finisco per farla tiepida. Non importa, con sagacia ho messo la tuta da combattimento sopra al termosifone per provare finalmente tepore dopo una camminata sotto il diluvio.
Butto la pasta, scaldo il sugo e stappo il prosecco. Allento la pressione del tappo con calma. Fingo cultura ma la verità è che non ho vinto il Gran Premio e non voglio sprecarne una sola goccia.
Dell’Albania, a parte mister De Biasi, conosco pochi, ovvio: Strakoscha, che mi sembra di capire sia all’esordio, Hysaj del Napoli, Basha ex Toro, Memushaj ex Parma che purgò l’Inter. Strano.
Quest’ Italia m’esalta. Ventura mi fa sperare, il Gallo gasare e Verratti godere.
Scolo le penne rigate durante l’inno albanese. I soliti quattro idioti lo fischiano, gli altri sono costretti ad applaudire per soffocarli. E’ così difficile star zitti durante gli inni nazionali o il minuto di silenzio? Pare di sì.
Parte Mameli e poso la pentola, rifiuto una chiamata e porto la mano sul petto da solo davanti al portatile poggiato sul tavolo. Mangeremo uno di fronte all’altro. Alzo la voce manco mi debbano sentire in fondo alla piazza.
Non esiste una partita della Nazionale poco importate. Mi emoziono per gli azzurri da troppo tempo per restare insensibile a un Italia-Albania.
Sorteggio palla o campo, unisco il sugo alla pasta e vuoto il calice.
Eccomi. Sono il ragionier Ugo Fantozzi che c’è in milioni di italiani. Non tutti però. Solo quelli definiti medi in momenti come questo e ne vado fottutamente fiero perché nella maggior parte dei casi non mi ci sento per niente.
Quando tutti si slegheranno frettolosamente il nodo della cravatta, scappando dall’ufficio per vedere le partite del Mondiale, perché al Mondiale ci andremo nonostante la Spagna nel girone, penserò “Ragazzi ero con voi anche in quella serata di marzo. Avevo intuito le vostre difficoltà mentre tutti pensavano fosse una passeggiata, perché nessuno regala niente”.
E infatti dopo 40 secondi l’Albania sfiora il gol. Sgridali Gigi: attenti!
La spinta è netta, il rigore ineccepibile. Chi andrà sul dischetto? Ah De Rossi, con lui posso stare tranquillo. Guardo l’esecuzione, perfetta, con finto distacco. Mi rilasso, lo stomaco si dilata e finisco la pasta. Non era neanche male considerando il sugo già pronto. Meriteremmo il raddoppio ma non lo troviamo.
Nell’intervallo un quadro di dubbio gusto mi ipnotizza come il pendolo di un’illusionista. L’arte astratta non mi è mai, e dico mai, interessata. La concretezza delle qualificazioni ai Mondiali sì.
Al raddoppio di Ciro mezza bottiglia è già andata. Mi gusto l’ultimo bicchiere con un pezzo di formaggio.
E’ andata. Serata perfetta.
Pina puoi sparecchiare.
Ah no, son da solo. Poco male, il tavolo dista dal lavandino giusto la lunghezza del mio braccio.
E comunque non l’avrei mai chiesto alla mia dolcissima metà. Non sono un italiano medio, dopotutto.